Sergio Romano: “Obama, il Dalai Lama e l’ombra della Cina”
L’incontro fra Obama e il Dalai Lama, secondo l’ambasciatore Sergio Romano, non dovrebbe sconvolgere i buoni rapporti fra i due governi «condannati» a trovare intese su molte questioni. L’intransigenza Usa nel fissare e confermare la visita, e di Pechino nel chiederne con veeemenza la cancellazione, rispondono anche a logiche di politica interna.
Domani il Dalai Lama sarà ricevuto alla Casa Bianca. Pechino ha protestato, Washington ha confermato. Decisi entrambi i governi a non cedere. Perché tanta determinazione da una parte e dall’altra, ambasciatore Romano?
«Obama attraversa un momento difficile. La sua popolarità cala, e si coagula contro di lui un’opposizione composita. Rimane forte la tendenza che ritiene utile alla sicurezza una politica stile Bush. Da quella parte muovono ad Obama l’accusa di essere cedevole, e lui ha bisogno di dimostrare il contrario. Arriva il Dalai Lama e lui lo riceve anche per dare all’opinione pubblica il segnale della sua impermeabilità alle pressioni esterne. Quanto ai cinesi la loro reazione ha aspetti di automatismo. Anche da loro esiste un’opposizione, in seno al partito comunista, che ha per oggetto l’apertura economica. Un’ala conservatrice che gioca la carta del nazionalismo, sapendo di avere facile presa in un Paese le cui scuole esibiscono carte geografiche con i confini dell’antico impero, ben più estesi rispetto a quelli attuali della Repubblica. I dirigenti cinesi non possono dare pretesti agli avversari interni e così si mostrano inflessibili sulla questione tibetana».
Le stesse spiegazioni valgono anche per le polemiche sugli aiuti militari Usa a Taiwan?
«In parte sì. Parlavo di automatismi nella politica estera di Pechino, ma il meccanismo funziona anche a Washington. Entrano in gioco dei fattori di identità. Gli Usa devono mantenersi fedeli al ruolo di paladini dei diritti umani. Da qui l’udienza al Dalai Lama. Ma devono anche comportarsi da protettori di Taiwan. Se rinunciano a darle armi, appaiono deboli e condiscendenti. Inoltre sono in ballo contratti per 5400 milioni di dollari a vantaggio dell’industria bellica. Così le forniture vengono concesse paradossalmente proprio quando a Taipei governano gli eredi del Kuomintang, cioè, delle due fazioni locali, quella che ha migliori rapporti con la Repubblica popolare».
Condivide il giudizio secondo cui Cina e Usa nell’era dell’economia globalizzata sono condannati ad accordarsi, perché hanno bisogno l’una dell’altra?
«Sul piano economico certamente sono gemelli siamesi. Non è solo il grande debitore americano a dipendere dai finanziamenti del grande creditore cinese che investe nei suoi titoli di Stato. Il grande creditore sa che se l’economia statunitense collassa, sono guai per tutti, anche per se stesso. Sono condannati ad intendersi, ma non è detto che possano farlo in ogni campo. Gli Usa vorrebbero la Cina al proprio fianco nelle sanzioni contro l’Iran. Con la Russia che tentenna e la Cina che dice no, però le sanzioni rischiano di essere prese senza il marchio Onu».
La formula giornalistica G2, coniata per definire il ruolo predominante dei due colossi nella politica internazionale, descrive una situazione reale?
«No, se intendiamo per G2 una sorta di partneriato, un asse cino-americano. Su alcune questioni concordano, su altre no. Prendiamo il summit sui cambiamenti climatici a Copenaghen. Obama è stato criticato per avere emarginato l’Europa. La realtà è che, non essendo in grado di assumere impegni fermi, ma potendo dare indicazioni di prospettiva di tipo ambientalista, era consapevole di non poter fare nemmeno quello se la Cina si smarcava. La Cina si è seduta al tavolo e ha accettato di giocare la partita. A quel punto Obama ha potuto fare passi avanti rispetto agli orientamenti americani del recente passato. Ecco, sul terreno ecologico si è visto un caso di complicità cino-americana».
Non è un asse, ma non è neanche un bipolarismo potenzialmente ostile allora?
«Sarà interessante vedere cosa accade dopo l’udienza al Dalai Lama. Quanto tempo si protrarranno le prese di posizione dure e i commenti negativi che possiamo attenderci da parte cinese, da un lato. E dall’altro, se gli Usa saranno capaci di lasciarli protestare senza replicare e prolungare la polemica».
Non c’è il rischio che le relazioni fra i due paesi ad un certo punto entrino in rotta di collisione?
«Con Obama il rischio non c’è. Se avessimo ancora Bush al governo, forse sì. Alla sua corte c’era una componente che vedeva nella Cina il pericolo non dell’immediato futuro, ma del dopodomani. Ricordiamo un episodio dell’aprile 2001. I cinesi intercettarono un aereo spia americano e lo costrinsero ad atterrare in un’isola. Nel mondo politico Usa c’era chi premeva per non cedere e cogliere l’occasione per regolare i conti con la Repubblica popolare. Ragionavano così: non possiamo dare tempo alla Cina di diventare una superpotenza, manteniamo sin d’ora un atteggiamento intransigente. Bush invece scelse di avviare negoziati. I cinesi restituirono l’aereo dopo averlo svuotato di tutte le sue sofisticate apparecchiature elettroniche. Bush ragionevolmente accettò un compromesso sgradito ai duri del suo partito, una parte dei quali guardavano oltre al Medio oriente, all’Iraq, all’Iran, come teatri di scontro. Indicavano all’orizzonte un pericolo più lontano, da sventare preventivamente. Non avrebbero mai proposto un attacco militare alla Cina, ma avrebbero esortato ad usare il massimo di determinazione senza curarsi delle reazioni dell’avversario, a spingersi insomma sino a creare una situazione di semi-rottura».
Torniamo all’Iran. La riluttanza di Pechino alle sanzioni è insormontabile secondo lei?
«La politica estera della Cina è estremamente prudente, sorvegliata, contenuta. Ma c’è un principio fondamentale cui si attiene, ed è l’assoluta priorità di ciò che giova al proprio sviluppo economico. I cinesi non hanno mai avuto remore quando si trattava di stringere rapporti d’affari. Non ne hanno avuto in Sudan ad esempio. La Repubblica popolare ha bisogno del petrolio iraniano come del gas russo o delle risorse naturali della Birmania. Le sue scelte rispetto a Teheran dipendono fortemente dai suoi interessi economici».
Fonte: L’Unità, 17 febbraio 2010
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