Il demone, Pechino e il Dalai Lama | Laogai
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Il demone, Pechino e il Dalai Lama

Il 4 febbraio 1997 un triplice efferato delitto viene commesso nel villaggio indiano di McLeod Ganj, in cima a Dharamsala, a pochi metri dalla residenza del Dalai Lama e dalla Scuola di dialettica. Qui, nell’Himachal Pradesh, alle pendici delle vette himalayane, dagli inizi degli anni sessanta si è costituito il più numeroso insediamento di profughi tibetani, scampati sin dal 1959, al seguito del Dalai Lama, alle devastanti conseguenze dell’invasione militare cinese tramite fughe rocambolesche nel rigore di altitudini innevate, sfidando l’impossibile anche a costo della vita.Ci sono asili, scuole, biblioteche, centri dove viene preservata e continuata la cultura tradizionale, monasteri, luoghi per studiare e approfondire il buddhismo vajrayana, un parlamento composto da quarantasei deputati, il consiglio dei ministri (Kashag) presieduto da un primo ministro (Kalon Tipa) eletto direttamente dal popolo.

Alla vigilia del capodanno tibetano, Losar, di undici anni fa, un autorevole lama, Lobsang Gyatso, il cui nome rievoca quello del Quinto Dalai Lama, viene trucidato nella sua stanzetta insieme a due giovani monaci traduttori, Lobsang Ngawang e Ngawang Lodoe.

Gli esecutori del feroce omicidio, come si scoprirà ben presto, sono sicari di una setta fondamentalista dedita, in contraddizione con i principi di apertura e nonviolenza ispiratori del buddhismo, al culto di un terribile “protettore”, Dorje Shugden, sconsigliato e osteggiato, perché ritenuto, appunto, negativo e violento, non solo dall’attuale Dalai Lama ma anche dal Quinto e dal Tredicesimo.

La scena che si presenta al commissario Rajeev Kumar Singh e al suo aiuto, Amitabha, è a dir poco raccapricciante. Un lago di sangue provocato da innumerevoli fendenti agli occhi, alla testa, al collo, alle gambe dei tre. Al fragile Ngawang era stato addirittura squarciato il cranio fino al cervello.

Le indagini portano lontano, nel tempo e nei luoghi, e si snodano tra superstizioni e fanatismo e tra evidenti trame politiche ordite, tanto per cambiare, dal governo cinese.

Raimondo Bultrini, corrispondente della “Repubblica”, attento conoscitore di questioni tibetane, dedito da più di un ventennio allo studio del buddhismo sotto la guida di Namkhai Norbu, uno dei maggiori maestri viventi di Dzog Chen (”grande perfezione”, definito dallo stesso Norbu come “insegnamento dell’autoperfezione spontanea”), ne parla dettagliatamente nel suo libro “Il demone e il Dalai Lama” edito da Baldini Castoldi Dalai (pp. 406, € 18,00).

Non si tratta, va subito precisato a scanso di equivoci, di un lavoro saggistico, come di primo acchito si potrebbe immaginare, ma di un’opera complessa in cui s’intersecano e amalgamano con esperienza e raffinatezza diversi strati, dal narrativo allo storico-documentale, dal filosofico al geografico-descrittivo.

Ne risulta un quadro composito da cui si evince il ruolo svolto da Pechino persino all’interno delle più intricate vicende religiose tibetane con stretti collegamenti e finanziamenti di centri, fondazioni, organizzazioni settarie con propaggini internazionali. L’unico, comune, scopo è ostacolare in ogni modo, anche con atti criminali, il Dalai Lama.

Non per niente Lobsang Gyatso, il lama massacrato a McLeod Ganj, era uno dei più convinti sostenitori della linea antifondamentalista della guida politica e spirituale tibetana e per questo era stato minacciato.

Emblematico è, tra l’altro, il fatto che proprio esponenti di rilievo del movimento legato al culto di Dorje Shugden si siano prestati al riconoscimento, come undicesimo Panchen Lama, di Gyaltsen Norbu, figlio, manco a dirlo, di funzionari comunisti cinesi, sostituito da Pechino a Gedhun Choekyi Nyima, il bambino rapito il 14 maggio 1995, e fatto letteralmente sparire insieme alla sua famiglia, perché accertato, dopo accurati esami, dal Dalai Lama come autentica reincarnazione dell’alta carica tibetana.

Con questo libro, scaturito da una lunga e appassionata ricerca a cavallo tra Asia, America ed Europa, Bultrini è riuscito a dipanare materiale aggrovigliato conducendoci in un intrigante viaggio tra epoche e zone differenti in cui si confondono realtà e leggenda, presente e misterioso passato.

Che fine hanno fatto, ci si può chiedere, gli assassini dei tre religiosi tibetani? Ecco quanto ha risposto all’autore, nel corso di un incontro, lo sconsolato commissario Singh: “Mi creda, abbiamo fatto davvero del nostro meglio per far emergere la verità. Ma come forse lei sa non esistono rapporti di estradizione stipulati dall’India né dal Nepal dove sono inizialmente fuggiti, né con la Cina dove si sono poi definitivamente eclissati. Quanto ai mandanti, la invito a leggere attentamente il mio rapporto. Non credo esistano dubbi sulle responsabilità dei dirigenti della società dei seguaci di Shugden qui a Delhi. Ma nel nostro paese avere buoni avvocati e magari qualche appoggio potente conta spesso più di ogni prova giudiziaria…”.

Si legga questo bel libro. Lo si faccia approfonditamente. Se ne uscirà sicuramente turbati ma, insieme, interiormente arricchiti. Lo si consigli, soprattutto, a quegli occidentali che si volgono a discipline a loro ignote con atteggiamenti istericamente integralisti.
Ha ragione il Dalai Lama ad affermare la necessità “di ricostituire il sistema immunitario del nostro mondo”.

Di Francesco Pullia, Notizie Radicali


Questo articolo e' stato scritto Venerdì 26 Dicembre 2008 ed archiviato nella categoria Altri giornali, Economia, Istituzioni nazionali e Internazionali, Stampa italiana.

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