
Nemici del popolo
Decimati, sradicati, umiliati e sottomessi. È rimasta solo una donna a difendere i diritti degli uiguri di Cina. E ora il regime di Pechino vuole metterla a tacere.
Delle violenze che hanno insanguinato lo Xinjiang, con centinaia di morti e feriti, il governo cinese ha accusato il Congresso mondiale degli uiguri di Rebiya Kadeer, una 62enne dai lunghi capelli percorsi da mèches bianche che da quattro anni vive profuga negli Stati Uniti. Mossa quanto mai infelice. Rebiya ha trascorso cinque anni nelle carceri cinesi per un capo d’imputazione assurdo. È stata condannata a otto anni di prigione per attentato alla sicurezza dello Stato: aveva inviato al marito esule negli Stati Uniti ritagli di giornali cinesi che parlavano di disordini nella regione. La vere colpe di Rebiya erano di non aver pubblicamente condannato il marito dopo la fuga di lui oltreoceano e la sua intenzione di incontrare una delegazione americana in visita nello Xinjian per verificare la situazione dei diritti umani nella regione. Amnesty International e Human Rights Watch l’hanno adottata a suo tempo come prigioniero di coscienza e la Fondazione Rafto per i diritti umani l’ha premiata nel 2004. Mentre è vero che l’opposizione degli uiguri al governo cinese e ai suoi rappresentanti nel territorio assume non di rado forme violente (si trovano ancora a Guantanamo 17 prigionieri uiguri catturati in Afghanistan alla fine del 2001, ora destinati all’esilio a Palau, piccola isola nel Pacifico a 800 chilometri dalle Filippine, unico paese che ha accettato di accoglierli non avendo legami commerciali su cui la Cina potesse esercitare ricatti), l’organizzazione della Kadeer è sicuramente non violenta. Pechino cerca di distruggere la credibilità di un personaggio che nel tempo potrebbe diventare scomodo, una sorta di Dalai Lama con la gonna.
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Di ragioni per lamentarsi gli uiguri ne hanno tante quante i tibetani se non di più. Anche loro non hanno storicamente nulla a che fare col potere di Pechino, se non per i reiterati tentativi da parte di quest’ultimo di sottometterli. L’ultimo, finora coronato da successo, è stato quello con cui nel 1949 Mao Zedong li ha assimilati nella Repubblica popolare cinese per “liberarli”, come i loro vicini tibetani, dalle “strutture feudali”.
Gli uiguri sono un’etnia turcofona, di tradizione nomade e di religione musulmana, maggioritari nel territorio corrispondente all’attuale Xinjiang (che loro chiamano Turkestan orientale) da una dozzina di secoli. I comunisti cinesi si sono sforzati di strappare loro tutte queste caratteristiche, da barattare forzatamente col “progresso”. Hanno eliminato la lingua uigura dalle scuole, dove a bambini e ragazzi si insegna solo in cinese. Hanno imposto il controllo delle nascite e l’aborto forzato dopo il secondo figlio in un territorio grande come Spagna, Francia, Italia e Germania sommate insieme e abitato da appena 20 milioni di abitanti. Hanno vietato ogni forma di istruzione religiosa fino ai 18 anni, compresa l’osservanza del digiuno del Ramadan (nelle scuole ai ragazzi è vietato osservarlo), e obbligano gli imam a sottoporre alle autorità in anticipo il testo del sermone del venerdì. Hanno espropriato le terre e le hanno trasferite a imprese di immigrati cinesi. Hanno favorito l’immigrazione nello Xinjiang di milioni di cinesi han, che sono infine diventati la maggioranza della popolazione: 10 milioni di han contro 8 milioni di uiguri. Hanno favorito l’emigrazione di uiguri nella Cina meridionale, facendo degli uomini degli operai a basso reddito e avviando le donne alla prostituzione. Hanno sfruttato i giacimenti di gas e petrolio, utilizzato il territorio come poligono per la sperimentazione delle armi nucleari, pattumiera atomica e lager per i detenuti pericolosi e i cinesi malati di Aids. In cambio di tutto questo, hanno costruito infrastrutture e case popolari. Per esempio nell’antica città di Kashgar, storica città mercato sulla Via della seta, hanno distrutto l’80 per cento dei vecchi edifici, comprese le moschee, e disperso la popolazione uigura in quartieri a forte componente han.
Non c’è da stupirsi che alcuni uiguri, popolazione di nomadi guerrieri, abbiano reagito alle suddette politiche con la lotta armata: dal 2002 nella lista delle organizzazioni terroristiche riconosciute come tali dagli Stati Uniti c’è l’Etim (East Turkestan Islamic Movement), considerato organizzazione fiancheggiatrice di al Qaeda. A questa o ad altri gruppi minori possono essere attribuiti gli assalti e gli attentati che causarono una trentina di morti in coincidenza con le Olimpiadi di Pechino nel 2008. Moti di piazza a larga partecipazione popolare contro il governo cinese si sono verificati più volte dagli anni Sessanta in avanti. Niente di tutto ciò può essere comunque attribuito al Congresso mondiale degli uiguri e alla sua leader Rebiya Kadeer. La quale rappresenta piuttosto un istruttivo esempio di cooptazione fallita, come si scopre leggendo la sua avventurosa autobiografia, recentemente tradotta anche in italiano (La guerriera gentile, Corbaccio 2009).
Prima coccolata, poi perseguitata
Figlia di un cercatore d’oro e poi umile lavandaia dopo il primo divorzio, come tutti gli uiguri Rebiya ha patito i rigori dell’occupazione cinese: deportazioni da una regione all’altra, lezioni di ateismo e sedute di rieducazione, divieto di usare gli abiti tradizionali, tentativi (sventati) di imporle l’aborto, la casa devastata dalle Guardie rosse, i libri sequestrati e bruciati. È diventata una commerciante quando la legge ancora lo proibiva. Poi, dopo l’apertura al capitalismo e alla proprietà privata, in pochi anni è diventata la proprietaria del più grande centro commerciale di Urumqi, nonché la settima persona più ricca della Cina. Il governo decide di valorizzarla e in breve tempo diventa membro della Consulta politica della Repubblica popolare cinese e quindi della delegazione cinese alla Conferenza Onu di Pechino sulla donna nel 1995.
Nel 1996, però, il secondo marito, simpatizzante della causa indipendentista, fugge negli Stati Uniti. Rebiya, che si era fatta portavoce delle lagnanze del popolo uiguro direttamente col presidente cinese Jiang Zemin, si rifiuta di rinnegarlo pubblicamente, e da quel momento iniziano le sue disgrazie, che culminano nella detenzione punteggiata di maltrattamenti. Eletta nel 2006 presidente del Congresso mondiale degli uiguri dagli esponenti della diaspora, Rebiya continua dall’esilio la lotta per i diritti del suo popolo. Con lo stesso coraggio con cui, bambina di 9 anni, domandava all’insegnante: «Signora maestra, durante le lezioni lei ci ha detto che Dio non esiste, che gli esseri umani non sono stati creati da Dio ma discendono dalle scimmie. Può allora spiegarci da dove arrivano queste scimmie? Perché i comunisti non sono in grado di fare una nuova creazione?».
Fonte: Tempi, 13 luglio 2009