ONU e diritti umani: Alla Cina un seggio nell’Unhcr: Perplessità sull’elezione
La Cina ha ottenuto un seggio nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Nonostante non fosse tra i candidati favoriti, i 193 membri dell’Onu hanno deciso che uno dei quattordici posti destinati ad accogliere i nuovi membri, quattro riservati all’Asia, andasse al Dragone, che torna a sedere a Ginevra dopo due mandati triennali consecutivi, dal 2006 al 2009 e dal 2009 al 2012. Esclusa la Giordania, in lizza per un seggio asiatico insieme a Cina, Maldive, Vietnam e Arabia Saudita. Dal primo gennaio, quindi, oltre alle quattro Nazioni asiatiche, siederanno nel Consiglio per i diritti umani anche Cuba, Messico, Francia, Gran Bretagna, Algeria, Marocco, Sudafrifa, Namibia, Macedonia e Russia. Per tre anni occuperanno uno dei 47 seggi nella sede di Ginevra dell’Unhcr.
Non hanno sortito effetto, quindi, le pressioni degli attivisti per i diritti umani mobilitatisi da tempo per sbarrare l’accesso del Dragone al Consiglio per i Diritti umani dell’Onu. Del resto, che il tema sia il tallone d’Achille per la seconda economia mondiale è cosa nota. Solo qualche settimana fa il Governo cinese ha dovuto affrontare l’esame della Commissione Onu per i diritti umani, che ogni quattro anni passa in rassegna la situazione dei Paesi membri delle Nazioni Unite. E il quadro che ne è emerso non è affatto confortante. Se, infatti, quei Paesi destinatari di aiuti e investimenti cinesi hanno assunto una posizione decisamente più morbida, mettendo l’accento su quanto la Cina ha fatto piuttosto che su quanto ancora deve fare, i Paesi sviluppati non hanno fatto sconti e hanno chiesto un maggiore impegno al Governo cinese per la tutela dei diritti umani. Tra le priorità emerse, la difesa dei diritti delle minoranze, la garanzia della libertà di espressione e della libertà religiosa, la tutela di chi in Cina lavora proprio per fare in modo che vengano garantiti tali diritti. «La Cina assicuri che avvocati e individui che lavorano per far progredire i diritti umani possano svolgere le proprie professioni chiaramente», ha sottolineato Anna Tamara Lorre, intervenuta al dibattito in rappresentanza del Canada.
Secondo attivisti e organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, infatti, la nuova leadership cinese avrebbe portato ad un peggioramento della situazione. In particolare, sarebbero stati registrati più casi di repressione nei confronti delle minoranze che risiedono in Tibet e nello Xinjiang, dei dissidenti e della libertà di espressione. «Fermate i procedimenti penali e le persecuzioni delle persone sulla base della loro religione o credo, inclusi cattolici, altri cristiani, tibetani, uiguri e praticanti del Falun Gong», ha insistito Anna Tamara Lorre, soffermandosi anche sulla situazione dei prigionieri politici. Ma la Cina ha difeso le proprie politiche, pur ammettendo il permanere di alcune difficoltà e di sfide difficili da affrontare.
Ora che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di destinare proprio alla Cina un seggio al Consiglio per i diritti umani, il dibattito sull’opportunità di tale decisione è destinato a riaccendersi. In molti nelle ultime settimane si sono schierati contro l’ingresso della Cina tra i 47, denunciando le violazioni dei diritti umani nel Paese. L’interrogativo resta lo stesso: perché la Cina ha meritato un seggio nell’Unhcr? Come va letta la sua elezione? E cosa comporterà? Irebiya Kadeer, il leader degli uiguri, minoranza etnica di religione musulmana che vive nella regione autonoma dello Xinjiang e subisce da anni repressioni e persecuzioni da parte del Governo cinese, aveva dichiarato senza giri di parole che «permettere alla Cina di diventare membro dell’Unhcr sarebbe come consentire a un lupo di prendersi cura del gregge».
E sono molte le voci che si sono espresse in questo senso, ‘Epoch Times’, giornale indipendente internazionale con base a New York, ha raccolto l’opinione di esperti e attivisti. A partire da quella di Edward Mcmillan-Scott, europarlamentare e vice presidente del Parlamento europeo per la democrazia e i diritti umani, secondo cui una decisione di questo tipo mina la credibilità del Consiglio. «I casi di violazione dei diritti umani in Cina sono ben documentati», ha scritto. «Numerose segnalazioni da parte della stessa Onu hanno messo in evidenza un trattamento degradante e inumano che viene adottato di routine in Cina: aborti forzati, persecuzioni religiose, oppressione delle minoranze». Ha insistito su questo anche Eleanor Byrne-Rosengren, direttrice di Free Tibet, che ha confermato come «in Tibet la Cina non rispetta né le istituzioni per i diritti umani né i principi dei diritti umani», quindi la sua candidatura è stata «un atto di cinica arroganza, in quanto ha negato per anni l’accesso al Tibet ai relatori speciali dell’Onu», cercando così di nascondere «la tortura, le esecuzioni extragiudiziali, le detenzioni arbitrarie, le punizioni collettive, la sorveglianza invadente e la violenta repressione delle proteste e della libertà di parola». Prima di entrare di nuovo a far parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, quindi, sarebbe stato opportuno che si conformasse «in modo tendenzialmente completo all’International Bill of Rights, costituito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dai Patti Internazionali successivi in materia», ha spiegato Antonio Stango, segretario del comitato italiano Helsinki per i diritti umani.
«Vergognoso e controproducente», dunque, che la Cina sieda nel Consiglio, ha concordato Sarah Cook, analista per l’Asia orientale presso la Casa Bianca, definendo «la situazione dei diritti umani a livello effettivo deplorevole», con un Governo che «mantiene con forza un monopolio del potere politico e sovrintende un sofisticato apparato di censura» e «dissidenti politici, attivisti civici, avvocati, lavoratori migranti, petizionisti e membri di minoranze religiose ed etniche come uiguri, tibetani e praticanti del Falun Gong sottoposti a violazioni quali detenzione arbitraria, tortura ed esecuzioni extragiudiziali, abusi a cui il Consiglio deve far fronte e per i quali è stato istituito». Una situazione che rende l’elezione cinese di difficile comprensione per Yang Jianli, fondatore e Presidente di Initiatives for China: «Le Nazioni Unite non dovrebbero e non devono sottostare al potere nazionale attraverso l’applicazione di diversi standard dei diritti umani per i diversi membri» e «non dovrebbero e non devono stare a guardare di fronte alle orribili violazioni dei diritti umani in Cina».
«Il Governo comunista cinese è uno dei peggiori violatori di diritti umani nel mondo e pertanto non è qualificato a entrare a far parte dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani», ha dichiarato senza giri di parole Bob Fu, Presidente di China Aid. Resta, quindi, una domanda, posta da Reggie Littlejohn, fondatrice e Presidente di Women’s rights without frontiers: «Come può essere un garante dei diritti umani in altri Paesi? O meglio, la Cina chiuderà semplicemente un occhio alle gravi violazioni dei diritti umani in altri Paesi per scoraggiare altre nazioni a sfidarla sul proprio abissale registro di violazioni dei diritti umani?».
L’INDRO l’approfondimento quotidiano indipendente,13/11/2013
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