Le borsette fatte a 3 euro l’ora vendute a 820 euro: e gli industriali in silenzio
Il sistema è stato disegnato come una piramide. In vetta c’è la griffe che fiuta le tendenze e disegna i modelli. Sotto il fornitore di prima fascia, cui la griffe delega la produzione fornendo il modello da realizzare e la merce con cui fabbricarlo.
La guardia di Finanza durante i controlli alla pelletteria
Io credo che se una borsetta che viene venduta a 820 euro è prodotta da operai pagati tre euro l’ora – e se sbagliano cinghiate! – ecco, io credo che ci sia un problema. E sfido chiunque a sostenere il contrario.
Gli operai della pelletteria Serena di Poggio a Caiano al centro di una fragorosa ma purtroppo rara inchiesta della Procura della Repubblica di Prato venivano pagati una miseria per incollare le borse. Per curiosità ho recuperato il modello di quelle scatoline di pelle griffata – non dirò il nome perché il problema è il peccato, non il peccatore – e scoperto che vengono vendute online a 820 euro.
Ora va tanto di moda parlare di “sostenibilità”. Ma questa è una “insostenibilità” che non possiamo più permetterci perché genera ingiustizie e danni reputazionali che alla lunga si traducono in perdite di ricchezza e di occupazione. Un’imprenditoria consapevole e matura dovrebbe per prima condannare e distinguersi. Invece…
Conosco quelle piaghe, perché ci sono nato e cresciuto e, sotto l’incalzare delle inchieste della magistratura – prima il “risparmio” per gli scarti di conceria smaltiti illegalmente, poi il “risparmio” per la sicurezza dell’orditoio dove è morta la povera Luana, infine il “risparmio” per gli operai schiavizzati dai loro kapò – mi assale il dubbio che una parte del successo di quel modello economico sia fondato sull’illegalità (in economia si dice “dumping” il sistematico mancato rispetto delle regole e delle leggi che consente alle imprese di abbassare i costi e i prezzi e di acquisire quote di mercato). Una parte, perché conosco fior di imprenditori ligi alle regole che combattono la dura legge dei mercati con la loro impareggiabile arte del produrre districandosi tra mille difficoltà e spesso vincendole.
Tutte le griffe del mondo si sono acquartierate nell’area intorno a Firenze, attratte da un irriproducibile contesto fatto di maestria artigianale e disponibilità di manodopera a prezzi contenuti legata alla presenza di almeno centomila immigrati da Cina, Bangladesh, Pakistan, Africa.
Il sistema è stato disegnato come una piramide. In vetta c’è la griffe che fiuta le tendenze e disegna i modelli. Sotto il fornitore di prima fascia, cui la griffe delega la produzione fornendo il modello da realizzare e la merce con cui fabbricarlo. Sotto ancora un fornitore di seconda fascia, a cui quello di prima fascia smista una parte dell’ordine. E tante volte c’è anche una terza fascia. Ma se consideriamo i margini economici, la piramide è rovesciata: gran parte dei soldi sono alla sommità, mentre più si scende e più la ricchezza da distribuire si riduce.
La griffe impone le condizioni di produzione, riepilogate in un capitolato: in base ai suoi calcoli, sa quanto lavoro serve per fabbricare una borsa e può quindi dettare la produzione di un determinato numero di articoli in un dato tempo e a un preciso costo. Il fornitore di prima fascia, quasi sempre un’azienda a conduzione italiana, prende l’ordine ma ne lavora direttamente solo una parte minima perché ai prezzi imposti dal committente non può guadagnarci: il resto delle borse li subappalta a un fornitore di seconda fascia, trattenendo un margine e dunque costringendolo a lavorare a costi più bassi dei suoi. È in questa seconda fascia che si trovava la pelletteria di Poggio a Caiano degli operai schiavi. Ma se il subfornitore non riesce a rientrare nelle condizioni di costo imposte dal fornitore, ecco che si sprofonda nella terza fascia delegando il lavoro a uno ancor più disgraziato. Come nell’inferno dantesco, man mano che si scende di girone in girone ai contratti di lavoro si sostituisce il sistematico sfruttamento.
Non accade solo con le borse: la corsa al ribasso è una vecchia conoscenza dei nostri distretti industriali, almeno da quando la globalizzazione li ha costretti a rincorrere gli impossibili sconti fatti dai Paesi di nuova industrializzazione. Prendiamo, ad esempio, il calzaturiero, sempre più egemonizzato dalle griffe che vendono le scarpe a centinaia se non migliaia di euro. Impongono ai fornitori investimenti – «se vuoi lavorare con noi devi comprare quel macchinario» – salvo poi lasciarli a piedi se non si adattano alle richieste ribassiste. E conosco almeno un caso di un imprenditore mollato dalla griffe che prima lo ha costretto a investire centinaia di migliaia di euro e poi gli ha chiesto lo sconto sulle lavorazioni. E per un euro lo ha mandato al diavolo: un solo euro di disputa, per scarpe che costano in negozio 500. Ma sono deprimenti anche le aste per i “mescoli”, le fibre di lana da cui si trae il filato, dove i filatori perlopiù pakistani si scannano a suon di ribassi che poi scaricano sulle condizioni di lavoro dei loro sottoposti: sette giorni su sette, domenica compresa, per 1.300 euro al mese se va bene, con turni di dodici e anche quattordici ore.
Dietro la patina dorata della Toscana campione di esportazioni, tra borse, cinture, abiti e scarpe, tra Santa Croce, la provincia di Firenze, quella di Prato e parte di quella di Pistoia, c’è anche questo. Quando arrivano i magistrati a scuotere le mele marce dall’albero, e i giornalisti fanno il loro mestiere, poi rischiano di cadere anche le mele sane perché il discredito è come il fango, quando schizza prende chi c’è senza distinzioni, inzacchera tutti. Ma non abbiamo sentito una parola da Confindustria, né sullo scandalo dei fanghi conciari smaltiti illegalmente, né sullo schiavismo nelle confezioni: solo alti lai, giustificati, per lo sputtanamento mediatico generalizzato del distretto della moda.
Basta parlare con qualsiasi analista di marketing, basta constatare la crescente rilevanza data ai bilanci etici e sociali delle aziende, per capire che il consumatore comincia ad avere orrore del fango, non vuole sporcarsi anche lui. Vuole comprare prodotti che abbiano una storia pulita, rispettosi dell’ambiente e dei diritti delle persone. Se scrivessimo sulle borsette da 820 euro che sono state fatte da operai pagati 3 euro l’ora quanti le comprerebbero?
Fonte: Il Tirreno, 25/05/2021
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