La guerriglia anticomunista in Tibet
Nella primavera del 1957, agenti CIA e ufficiali dell’Esercito e dell’Aviazione USA vennero inviati in India settentrionale con il compito di addestrare il primo gruppo di guerriglieri anti comunisti tibetani. Storia di un’eroica, ma vana rivolta.Contrariamente a quanto si possa pensare, all’indomani della proditoria invasione cinese del 1950, buona parte del pacifico, ma orgoglioso popolo tibetano decise di non accettare supinamente l’occupazione straniera, ma di imbracciare le armi e farvi fronte. Per quasi 20 anni, sul Tetto del Mondo fu infatti combattuta una sanguinosa, ma sconosciuta guerra di resistenza che, oltre a coinvolgere la CIA, che la spalleggiò e alimentò per almeno 15 anni, procurò a Pechino gravissimi grattacapi.
Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1951, quando, dopo avere travolto il piccolo esercito tibetano composto da 7.000 tra soldati autoctoni e volontari nepalesi e buthanesi, molto male armati ed equipaggiati, un’armata di circa 45.000 soldati cinesi agli ordini del Commissario politico Wang Qiemi entrò nell’antica capitale tibetana di Lhasa. Occupata la città, i cinesi instaurarono subito un duro regime marxista che di lì a poco avrebbe stravolto l’intero, tradizionale assetto politico e socio economico dell’antico regno teocratico tibetano, attraverso l’eliminazione di tutta la nomenclatura sacerdotale e burocratica e mediante la ‘cinesizzazione’ del Paese, cioè abolizione di ogni proprietà, la collettivizzazione forzata dell’agricoltura e di qualsiasi forma di attività economica. Una rivoluzione che, verso la fine del novembre del 1951, spinse alcuni influenti commercianti guidati da un tenace nazionalista cinquantunenne Gompo Tashi Andrugtsang, a dare vita ad un’organizzazione resistenziale segreta che più tardi, il 16 giugno 1958, prenderà il nome di Chushi Gandrug (Quattro Fiumi, Sei Montagne). Quest’ultima era composta in buona misura da soggetti appartenenti al gruppo etnico Khamba (o Khemba) residente intorno alla valle del Yang-Sang-Chu, lungo il confine cino-tibetano, ma in seguito accolse nelle sue file molti altri combattenti di differente etnia. Per la cronaca, va ricordato che dopo l’invasione cinese del 1950, in Tibet fu fondato anche un secondo movimento di resistenza, il Tensung Danglang Maggar (Volontari Combattenti per il Tibet Libero) che, almeno per un certo periodo, combatté a fianco del Chushi Gandrug.
Nonostante la sua iniziale debolezza (oltre che a risultare abbastanza disorganizzato, il movimento di Gompo Tashi Andrugtsang disponeva di pochissime armi), già a partire dal 1952, la compagine, attiva soprattutto nelle campagne e nelle zone montane, incominciò ad effettuare, con alterne fortune, colpi di mano contro isolati presidi cinesi: attività che venne proseguita fino alla fine del febbraio del 1956, allorquando le forze maoiste decisero di eliminare anche gli ultimi retaggi della cultura e della religione tibetani e di imprigionare lo stesso Dalai Lama Tenzin Gyatso al quale, cinque anni prima, era stato concesso di continuare a svolgere il ruolo, più onorifico che sostanziale, di capo spirituale nella nazione. Il 20 febbraio, senza alcun preavviso, le truppe maoiste, appoggiate da mezzi blindati e artiglieria, scatenarono un attacco contro gli antichi monasteri di Chatreng e Litang, massacrando migliaia tra monaci e civili e dando il via ad una persecuzione che portò all’arresto e all’incarcerazione di non meno di 50.000 tibetani, molti dei quali furono in seguito assassinati nei modi più orrendi. Di fronte a questa violenta escalation, Andrugtsang ed il suoi seguaci compresero che, data la già accennata debolezza del movimento partigiano (compagine che contava non più di 1.000 uomini), qualsiasi tentativo autonomo di ribellione si sarebbe trasformato in un sicuro disastro. L’Esercito Popolare Cinese disponeva infatti di ben 14 divisioni per un totale di oltre 140.000 uomini, appoggiati da almeno 10.000 autoveicoli, 800 tra mezzi corazzati e blindati, mille tra cannoni e mortai e circa 250 aerei di tutti i tipi. Ragione per cui nell’aprile dello stesso anno, chiesero al fratello maggiore del Dalai Lama, Gyalo Thondup, che in precedenza, in India, era già stato lo ha avvicinato da alcuni agenti della Central Intelligence Agency o CIA (a quel tempo diretta da Allen Welsh Dulles) di fare pressioni sugli americani per intervenire in appoggio dei gruppi resistenziali: richiesta che venne esaminata con attenzione ed in seguito avvallata.
Nella primavera del 1957, un gruppo misto composto da agenti CIA e ufficiali dell’Esercito e dell’Aviazione USA fu inviato – grazie alla connivenza del governo di Nuova Delhi - in India settentrionale con il compito di addestrare e trasformare in guerriglieri anti comunisti alcune centinaia di tibetani che erano riusciti a fuggire dal loro Paese. Nell’aprile di quell’anno, presso le basi segrete di Dibrugarh e Darijeeling, ubicate lungo l’alto corso del Brahmaputra, le prime 40 reclute tibetane terminarono il primo periodo di training, venendo raggiunte pochi mesi più tardi da un secondo ben più consistente scaglione (circa 250 uomini) di loro compatrioti, già addestrati in nelle basi americane di Okinawa e Guam e in quella di Cam Hale (Colorado), una ex base della 10ª Divisione da Montagna dell’esercito statunitense. “Noi volontari eravamo pieni di speranze – raccontò negli anni Settanta Gyato Wangdu (che sarebbe diventato l’ultimo comandante del Chushi Gandrug). Lavorammo sodo e imparammo a maneggiare armi, esplosivi e apparecchi radio. Chiedemmo addirittura di potere trasferire in Tibet una bomba atomica portatile da utilizzare contro i cinesi, ma ovviamente il nostro diretto superiore, l’ufficiale della CIA Roger McCarthy, ci rispose ridendo che si trattava di un espediente troppo rumoroso (…) Ci fornirono però di capsule di cianuro da ingoiare in caso di cattura”. I lanci sul Tibet ebbero inizio nell’autunno del 1957. Aerei americani Douglas DC3 e Fairchild C-82 Packet (in seguito furono adoperati i ben più moderni quadrimotori a turboelica Lockheed C-130 Hercules), di base in India settentrionale, trasferirono di notte i contingenti iniziali. Per la cronaca, il primo guerrigliero ad essere paracadutato fu il sergente Athar Norbu. “C’era luna piena e dall’alto si vedeva il fiume Tsangpo luccicare”, raccontò in seguito ad un ufficiale statunitense. Il lancio si svolse senza problemi e la prima pattuglia di 12 guerriglieri poté mettersi subito in marcia in direzione di Lhasa dove lo stesso Norbu avrebbe dovuto contattare, nell’ambito della segretissima Operazione “ST Circus”, il comandante delle forze ribelli Gompo Tashi Andrugtsang per stabilire una comune strategia di guerriglia. Nel corso dell’incontro, che ebbe luogo in un’anonima abitazione della periferia della capitale, fu stabilito che tutte le forze di Tashi Andrugtsang si sarebbero dovute trasferire a Triguthang, nel Tibet meridionale, dove gli americani avrebbero fatto affluire per via aerea altri combattenti e soprattutto ingenti quantitativi di armi, munizioni e rifornimenti. Nel maggio-giugno del 1958, Tashi Andrugtsang stabilì la sua nuova base operativa a Triguthang, radunando sul posto circa 6/8.000 uomini provenienti da svariate regioni.
Nel mese di luglio, aerei americani paracadutarono alcune decine di contenitori con vecchi fucili Lee-Enfield, munizioni, attrezzature radio, batterie elettriche, tende da campo, viveri e medicinali.
Soddisfatta dal buon inizio dell’operazione, la CIA, d’intesa con lo Stato Maggiore dell’Esercito e con il governo di Washington, iniziò a trasferire a Okinawa, Guam, Saipan e a Camp Hale diversi gruppi di volontari tibetani rifugiatisi in India per sottoporli ad un intenso ciclo di addestramento. A Camp Hale, i volontari furono presi in consegna da un valido ufficiale della CIA, Anthony Alexander Poshepny, meglio conosciuto come Tony Poe, che in quegli anni provvide anche all’addestramento di volontari cinesi musulmani Hui (minoranza perseguitata da Pechino) destinati a compiere azioni di sabotaggio in Cina
Nel frattempo, l’aviazione statunitense effettuò altri due lanci di rifornimenti sul campo di Triguthang. Ormai in Tibet la situazione stava degenerando e, complice la guerriglia, ma soprattutto la volontà di Mao di ripulire il Paese, l’esercito cinese aveva implementato la sua escalation di soprusi e violenze nei confronti del governo del Dalai Lama e della popolazione. Il 17 marzo 1959, a Lahsa, cioè appena tre giorni prima che le truppe comuniste bombardassero e occupassero la grande residenza di Potala, una pattuglia della resistenza, penetrata nella notte in città, riuscì con un colpo di mano a fare fuggire dal palazzo il Dalai Lama e un gruppo di suoi stretti collaboratori, trasferendoli nel sud del Paese controllato in buona parte dai partigiani. Successivamente, il Dalai Lama fu scortato da una pattuglia di guerriglieri addestrati dalla CIA fino al confine indiano e posto in salvo.
Venuti a sapere della fuga, i cinesi se la presero con la popolazione civile e nella sola Lhasa massacrarono non meno di 3.500 persone, arrestandone molte altre.
Nei mesi successivi, gli americani addestrarono altri guerriglieri trasferendoli poi in Tibet per dare man forte alle truppe di Gompo Tashi Andrugtsang che, ammontando ormai a ben 35.000 uomini, all’inizio del dicembre 1959 avevano scatenato una serie di massicci e riusciti attacchi contro colonne e basi cinesi. “Il 25 dicembre, nell’ambito di questa offensiva – annotò in seguito il comandante operativo del settore tibetano per la CIA, Roger McCarthy - duecento guerriglieri di Tashi Andrugtsang investirono diverse caserme e fortilizi cinesi, distruggendo depositi, autoveicoli e uccidendo oltre 550 soldati maoisti (…) Nell’arco di circa 15 giorni di combattimento i guerriglieri persero 20 uomini ed ebbero appena nove feriti”. Successivamente, un altro raggruppamento composto da 29 guerriglieri addestrati dagli americani e 400 locali, investì un grosso accampamento trincerato, ingaggiando con il nemico una battaglia di 10 giorni al termine della quale i cinesi lasciarono sul campo 300 morti. Il 24 gennaio 1960, un’altro raggruppamento armato di 130 uomini attaccò i cinesi a Tengchen, conquistando anche il fortino di Teng Dzong: vittoria che indusse oltre 4.000 civili della zona a confluire spontaneamente nelle file della resistenza (anche perché l’aviazione cinese iniziò a bombardare e mitragliare indiscriminatamente tutti i villaggi situati nell’area occupata dai partigiani).
Durante il gennaio del 1960, gli aerei americani provenienti dai campi indiani intensificarono i lanci di rifornimenti. Vennero paracadutate numerose casse contenenti più moderni fucili automatici Garand M-1, mortai da 60 e 81 millimetri, granate, bazooka e mitragliatrici Browning, e molte munizioni. Complessivamente furono paracadutati 900 pallet di fucili, 200 casse di proiettili e 20 casse di granate. Più medicinali, viveri e varie attrezzature militari.
Verso la fine di gennaio, il Comando cinese decise di avvalersi dell’aviazione per distruggere l’ormai strategica base di Triguthang. Dopo avere lanciato alcune migliaia di volantini incitanti la resa, a partire dal 1° febbraio e per la durata di due settimane, stormi di imprendibili cacciabombardieri a reazione Shenyang J-5 martellarono con centinaia di bombe dirompenti e al napalm gli accampamenti e i depositi dei guerriglieri, causando la morte e il ferimento di numerosi partigiani e civili. Le due località maggiormente colpite dagli apparecchi furono Chagra Pembar e Nira Tsogeng. Ammorbiditi gli obiettivi, i cinesi passarono all’offensiva terrestre, attaccando i “santuari” partigiani con almeno 25.000 soldati appoggiati da mezzi corazzati, artiglieria e, naturalmente, da aerei da combattimento. Nel corso delle disperate battaglie difensive che seguirono soltanto cinque guerriglieri paracadutisti tibetani riuscirono a sopravvivere., mentre il resto dei reparti venne seriamente scompaginato e disperso. Si trattò di un vero e proprio disastro, ben peggiore di quello conseguente la quasi simultanea distruzione, da parte cinese, del campo base di Nira Tsogeng, dove gli aerei americani vi avevano paracadutato ben 430 contenitori carichi di armi e rifornimenti destinati ad un contingente di 4.000 combattenti tibetani. In seguito a queste due gravi débacle, alcune migliaia di partigiani braccati dai cinesi furono costretti a fuggire attraverso la desolata piana del Ladakh, dove la maggior parte di essi morì per mancanza d’acqua.
Ciononostante, la CIA decise di proseguire con le operazioni di intruding. E nella primavera del 1960, una squadra di sette guerriglieri fu paracadutata a Markam, nel Tibet orientale. La pattuglia, agli ordini del tenente Yeshe Wangyal, figlio di un capo tribù locale, si unì alla banda del padre che era stato ucciso alcuni mesi prima. Dopo una serie di scontri, il gruppo, che contava circa 100 uomini, fu circondato e catturato dai cinesi. Per non cadere vivi nelle mani del nemico un paio di guerriglieri si uccisero ingoiando le capsule di cianuro che avevano in dotazione, mentre un terzo, l’unico sopravvissuto alla battaglia, l’ex studente di medicina Bhusang, non fece a tempo, venendo imprigionato e tenuto in un carcere duro per i successivi 18 anni.
A conti fatti, di tutti i guerriglieri paracadutati i Tibet, soltanto 12, due dei quali catturati dai cinesi, riuscirono a sopravvivere ai combattimenti del periodo 1958-1960. Un bilancio molto negativo le cui cause andavano ricercate in prima istanza nell’enorme disparità esistente tra le forze contrapposte. Gli altri due motivi che causarono il progressivo indebolimento dell’intero fronte resistenziale furono l’attitudine dei combattenti tibetani a contrastare frontalmente reparti nemici più numerosi e meglio addestrati, e la carenza da parte dei rivoltosi di un quantitativo sufficiente di radio da campo, indispensabili per mantenere costanti contatti tra le varie formazioni. Per varie ragioni, la CIA non poté fornire ai partigiani più di 10 apparecchi, in quanto questi abbisognavano di enormi riserve di pesanti batterie il cui inoltro sarebbe andato a discapito di quello delle armi e delle munizioni: eventualità che i tibetani paventavano come la morte.
Nell’estate del 1960, in seguito alla progressiva riconquista cinese dei territori meridionali, la CIA ritenne opportuno trasferire la principale base di partenza per le operazioni in Tibet nella provincia nepalese del Mustang. E da qui, uno dei luogotenenti di Tashi Andrugtsang, l’ex monaco Bapa Gen Yeshe, partì a piedi alla volta del Paese delle Nevi con un corpo di spedizione composto da 300 uomini che, di lì a poco, sarebbe stato seguito da altri. Secondo i piani, avrebbero dovuto attraversare il confine altri 1.800 guerriglieri, suddivisi in contingenti di 250/300 unità. Ma prima che l’intero corpo potesse penetrare in Tibet, i servizi segreti cinesi, che grazie ad alcune spie avevano individuato la nuova base partigiana, ammassarono lungo il confine numerosi reparti tendendo imboscate e respingendo con relativa facilità tutte le forze ribelli che, una volta rientrate in Nepal, dovettero affrontare mesi terribili di abbandono, isolamento e fame. L’abbattimento da parte dei sovietici dell’aereo spia statunitense U-2, avvenuto il 1° maggio 1960, suggerì infatti a Washington di sospendere, almeno momentaneamente, qualsiasi operazione di appoggio ai guerriglieri anticomunisti. Nella primavera del 1961, il presidente democratico John F. Kennedy, succeduto nel ‘60 al repubblicano Dwight D. Eisenhower, decise però di continuare a dare sostegno alla resistenza tibetana, consentendo alla CIA di proseguire con i suoi piani. Lo stesso anno, aerei statunitensi paracadutarono una squadra di sette sabotatori tibetani nei pressi della grande arteria che collegava Lahsa i centri del Sinkiang. Giunti a terra, i guerriglieri minarono in più punti la strategica arteria, costringendo le autorità cinesi a deviarne il traffico su un altro tracciato. Sempre nello stesso periodo, i guerriglieri ottennero un altro importante risultato. Quaranta cavalleggeri tibetani sopraffecero infatti un piccolo, apparentemente insignificante, convoglio motorizzato cinese, sequestrando poche armi e alcune borse nelle quali fu trovato un dossier segreto di 1500 pagine che descriveva il sostanziale fallimento della politica economica del ‘Grande Balzo in Avanti’ voluta da Mao, indiscrezioni sugli accordi segreti tra Pechino e Nuova Dehli e moltissime informazioni circa le frequenti carestie che stavano falcidiando la Cina, e il diffuso scontento dei quadri dell’Esercito della Repubblica Popolare nei confronti del governo. Una volta giunto in possesso dell’importante dossier, John Kenneth Knaus - responsabile della sezione CIA Operazioni in Tibet - saltò giù dalla sedia paragonando l’assalto alla minuta colonna cinese ad “una delle più importanti battaglie vinte dagli Stati Uniti”.
Nel 1962, una pattuglia di otto guerriglieri venne trasferita da un Lockheed C-130 Hercules e paracadutata nel cuore stesso della Cina, nella regione del Lop Nor (situata a settentrione del Tibet). La pattuglia riuscì ad individuare una delle aree destinate ai test atomici e ad impiantare non lontano da essa degli appositi sensori collegati via radio: strumenti che, nel 1964, confermarono a Washington la deflagrazione di diversi ordigni ad alto potenziale.
A partire dalla metà degli anni Sessanta la situazione dei resistenti tibetani iniziò però ad aggravarsi ulteriormente. I governi indiano e nepalese palesarono in maniera sempre più evidente la loro ostilità nei confronti della guerriglia, e nel contempo la CIA subì pesanti attacchi dai suoi detrattori americani, uomini d’affari interessati a riaprire rapporti economici con la Cina, politici ‘liberal’ e ‘pacifisti a senso unico’. L’ambasciatore di Kennedy in India, il democratico progressista John Kenneth Galbraith, arrivò addirittura a definire le operazioni a supporto dei patrioti tibetani “un’insana impresa”. Insomma, La CIA si trovò con le spalle al muro e dovette porre rapidamente fine al suo piano. Non a caso, nel maggio del 1965, effettuò in Tibet meridionale l’ultima operazione di aviolancio di armi e rifornimenti ai partigiani - ormai orfani del loro anziano leader Gompo Tashi Andrugtsang, deceduto nel settembre del 1964 in seguito alle ferite riportate in uno scontro - ridotti allo stremo e praticamente circondati da preponderanti forze cinesi.
Nel 1965, il fratello del Dalai Lama, Gyalo Thondup rimpiazzò Gompo Tashi con Bapa Yeshe, un combattente della vecchia guardia più simile per mentalità e preparazione ad un capo tribù che non ad un moderno comandante. Senza considerare che Yeshe non brillava nemmeno per onestà e correttezza essendo solito appropriarsi indebitamente dei fondi lasciati dagli americani, oltre depredare i villaggi che incontrava lungo il suo cammino. Ben presto l’agire di Yeshe iniziò ad irritare sia i nepalesi che gli indiani, creando tali grattacapi al fratello del Dalai Lama da costringerlo, nel 1968, a destituirlo. Bapa Yeshe che, grazie al denaro messo da parte, si ritirò a Kathmandu, per una sorta di vendetta pensò bene di riferire al Comando dell’esercito nepalese l’esatta ubicazione degli ultimi ‘santuari’ dell’esercito clandestino tibetano ancora presenti nel Paese, favorendone la distruzione. Secondo fonti tibetane, l’ultimo capo partigiano a rimanere in armi fu Gyato Wangdu, un combattente duro come l’acciaio addestrato anni prima nella base Saipan.
A riporre la pietra tombale sulle residue speranze degli ormai pochi partigiani tibetani presenti in Nepal e in India fu, infine, l’apertura decisa dal presidente Richard Nixon alla Cina. E quando nel tardo 1968 al Comando CIA giunse il temuto ordine di porre ufficialmente fine all’Operazione ‘ST Circus’, non pochi agenti e graduati ebbero modo di condividere con i tibetani il loro più profondo disappunto. “La verità – annotò in seguito il comandante McCarthy - è che di fronte ai vantaggi di una normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Washington, quest’ultima non si fece scrupolo ad abbandonare i tibetani. Peccato, anche perché ben difficilmente in futuro saremo in grado di ripetere ciò che di buono siamo stati capaci di fare in Tibet”. Per la cronaca, gli ultimi reparti partigiani del Mustang continuarono da soli la loro lotta disperata fino al 1974, quando il governo nepalese, sotto pressione cinese, li attaccò. E nonostante il Dalai Lama ordinasse ai suoi uomini di arrendersi, molti di essi preferirono suicidarsi. Non tutti però. Il tenente Gyato Wangdu, assieme a pochissimi suoi fedeli, tentò di oltrepassare il confine. Ma dopo appena un mese di fuga, al Passo Tinkers, il reparto cadde in un imboscata venendo annientato. Terminava così l’epopea del movimento resistenziale tibetano.
Alberto Rosselli
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