La Cina sfida gli Usa in Africa

Finora erano stati per lo più insediamenti produttivi. Investimenti per migliorare le infrastrutture o ravvivare il tessuto produttivo. Ma ora le mire della Cina in Africa non sono più solo di tipo commerciale, o economico, sono diventate anche di tipo militare.

Dall’inizio degli anni duemila la Cina ha fissato come obiettivo una nuova presenza come leader globale e, in questo senso, l’Africa è diventata uno degli snodi fondamentali. In meno di nove anni, nel 2009, è avvenuto il grande sorpasso: il volume degli scambi commerciali Cina-Africa ha superato quello tra Usa ed Europa.

Il continente africano rappresenta un miniera molto preziosa per Pechino, in particolare per le sue risorse. Nonostante la flessione dell’economia cinese dovuta alla crisi economica del 2008, gli investimenti nel settore delle estrazioni e delle infrastrutture hanno continuato a viaggiare con ritmi elevati. E proprio su quest’ultimo punto si basa la strategia della Repubblica popolare. In particolare le società di investimento cinesi hanno lavorato per la realizzazione di porti e ferrovie, in tutto il Pacifico e in Africa, senza però dimenticare l’Europa come nel caso del Porto del Pireo in Grecia, acquistato da una società di Pechino. Ma gli investimenti hanno riguardato anche Kenya, Tanzania e la piccola Eritrea, un Paese poverissimo. La società d’investimento China Harbor Engineering Company ha speso 400 milioni di dollari per la costruzione del nuovo porto di Massawa. Altro tassello la ferrovia che va da Khartoum a Port Sudan in Sudan. Recentemente le autorità del Paese africano hanno confermato che oltre il 75% degli investimenti petroliferi nel Paese sono nelle mani dei cinesi. Ma i fondi del Dragone sono arrivati anche nel tormentato Sud-Sudan. Sia inviando risorse per la costruzione di strutture che mandando diplomatici di lungo corso a collaborare con la pacificazione dopo il conflitto con il vicino del Nord. Sullo sfondo anche in questo caso c’è il petrolio. Visto che orami il reticolo della Cina è diventato così esteso si è resa necessaria una nuova forma di presenza, quella militare .

Una base a otto miglia dagli americani

Pechino ha scelto di piazzare la sua prima base nel continente nel il piccolo Gibuti, un ex-colonia francese nel Corno d’Africa. La zona scelta è quella di Obock. Secondo i piani la struttura ospiterà depositi d’armi, navi militari, un eliporto e un contingente di soldati o corpi speciali. Il fatto che la base non potrà ospitare che 2-3.000 uomini potrebbe far pensare che ci si trovi di fronte a una questione di poco conto, una questione per addetti ai lavori, ma così non è, almeno per due ragioni. La prima è che per la prima volta la Cina sceglie di uscire dal suo isolazionismo candidandosi al ruolo di potenza, la seconda è che lo fa scegliendo di piazzare la sua base a sole otto miglia da una delle istallazioni militari statunitensi più importanti del mondo, Camp Lemonnier.

Camp Lemonnier è l’unica base permanente americana in tutta l’Africa. Ospita 4 mila uomini e viene utilizzata per operazioni delle forze speciali nell’area e per le missioni dei droni in Yemen e Somalia. La base viene considerata così strategica che nel 2014 è stato stanziato un miliardo e mezzo di dollari per la sua espansione mentre nel maggio del 2014 il presidente Barack Obama ha trovato un accordo con le autorità del Paese per estendere la permanenza americana per altri 20 anni con un affitto di 70 milioni di dollari all’anno.

Diventare una potenza globale

Per smorzare le polemiche, i cinesi si sono limitati a dire che la base sarà solo di supporto ma i tempi di realizzazione con cui è stata costruita alimentano più di qualche sospetto. L’8 aprile 2016 il ministero della difesa cinese annunciava l’inizio dei lavori e ad agosto le immagini satellitari mostravano già uno stato avanzato delle opere. La presenza nella zona non è nuova. In passato gli investimenti hanno riguardato sia infrastrutture locali che la nuova linea ferroviaria tra Etiopia e Gibuti. Secondo il ministro degli esteri gibutiano, Youssouf, la presenza cinese non dovrebbe superare le 300 unità, ma il campo sarà dimensionato per almeno 2.000 effettivi. Al momento non è previsto un aeroporto ma sicuramente ci sarà un eliporto e una porto sufficiente ad ospitare navi da guerra di un discreto tonnellaggio.

I forti investimenti cinesi in Africa e Medio Oriente hanno finito col sovraesporre i migliaia di espatriati che hanno partecipato ai vari lavori ottenuti nei vari continenti. In particolare nel 2011 è stata costretta ad avviare un piano di evacuazione per i 35 mila cinesi presenti in Libia prima della caduta di Gheddafi e altri 600 dopo lo scoppio del conflitto in Yemen. Non solo. Diversi rapporti hanno detto che le navi militari cinesi spesso faticano ad accedere ad approvvigionamenti mentre sono in missione. La scelta di mettere una base in Gibuti va in questa direzione.

“Attualmente, ci si basa più sulla cooperazione per proteggere i nostri interessi. Ma abbiamo abbiamo bisogno di migliorare le nostre proprie capacità”, ha spiegato il generale Chen Zhou, anziano consigliere militare di Pechino: “O con aerei o con navi abbiamo bisogno di migliorare la nostra capacità strategica”. Questa nuova strategia militare fa parte di una nuova linea interna al partito comunista cinese, inaugurata con la pubblicazione del rapporto strategico della People’s Liberation Army Academy of Military Science che indicava nella creazione di basi miliari il primo passo per migliorare la difesa dei propri interessi arrivando a “esercitare un’influenza politica e militare sempre più consistente in queste regioni”.

Lo stato dei lavori della base in Gibuti (Muovere il cursore per vedere l’avanzamento dei lavori)

Cinque basi in un fazzoletto di terra

Ma il piccolo Gibuti, che conta una popolazione di circa 800mila individui, non è solo il terreno di scontro tra America e Cina. L’ex colonia francese ospita ancora un discreto contingente di forze transalpine. In particolare sul suolo gibutiano ci sono circa 2mila soldati francesi e un distaccamento dell’aeronautica. In particolare, si legge sul sito del ministero della difesa francese, ci sono quattro caccia da combattimento Mirage 2000, un aereo da trasporto C160 e due elicotteri Puma.

Accanto ad americani, francesi e cinesi, c’è anche l’Italia. Il nome ufficiale è “Base Militare Italiana di Supporto” ed è stata costruita nel 2012. Nelle intenzioni si tratta della prima vera base logistica operativa. Il contingente non supera gli 80 uomini ma funge da punto di raccordo per le attività che le navi italiane svolgono nell’Oceano indiano per contrastare la pirateria.

L’elenco di Paesi interessanti al Gibuti continua con il Giappone. L’esercito di difesa del Sol Levante, ridimensionato pesantemente dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha una sola base operativa fuori dai suoi confini e questa base si trova non lontana da Camp Lemonnier. Ufficialmente la base giapponese ospita poco meno di 200 uomini e svolge ruolo di supporto per le operazioni anti pirateria della marina giapponese. Il governo di Tokyo ha però richiesto di poter allargare il proprio compound per poter ospitare anche aerei militari C-130 per il trasporto delle truppe. Accanto a tutti questi attori potrebbe presto esserci l’Arabia Saudita che ha annunciato l’intenzione di trovare un accordo con le autorità locali per creare una base militare per combattere l’influenza dell’Iran in Yemen e nel resto dell’area.

La presenza americana in Africa

Perché tutti scelgono il Gibuti

Perché un Paese così piccolo e senza risorse ha attirato potenze economiche, vecchi Stati coloniali e nuovi attori mondiali? In primo luogo per la sua stabilità politica. Dopo la guerra civile che ha sconvolto il Gibuti nei primi anni ’90 il Paese è riuscito a costruire un sistema politico abbastanza stabile. Altro aspetto importante è rappresentato dal fatto che si costituisce come sbocco naturale dell’Etiopia che è al centro degli interessi delle grandi potenze sia per le risorse che per i grandi latifondi in mano alle multinazionali. Infine c’è elemento più importante di tutti: la vicinanza con il Bab el-Mandeb, lo stretto di terra che collega l’Africa con il Golfo di Aden e la parte meridionale della Penisola arabica.

Basti pensare che per le acque del golfo passano ogni anno il 20% del traffico mondiale di merci e metà delle importazioni di petrolio della Cina. Per la stessa rotta passano anche esportazioni della Repubblica popolare verso l’Europa per un valore pari a un 1 miliardo di dollari al giorno. La base in Gibuti rappresenterebbe il coronamento dell’ideale “Filo di perle” che collega Pechino al Sudan attraverso i porti sparsi per tutto l’oceano indiano. E il primo tassello per mettere in discussione l’egemonia americana come unica potenza mondiale.

Gli Occhi della Guerra,11 gennaio 2017

Condividi:

Stampa questo articolo Stampa questo articolo
Condizioni di utilizzo - Terms of use
Potete liberamente stampare e far circolare tutti gli articoli pubblicati su LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, ma per favore citate la fonte.
Feel free to copy and share all article on LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, but please quote the source.
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Internazionale.