Koonchung, sull’oblio di Tiananmen
«L’idea per questo romanzo mi è venuta nel 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino», dice Chan Koonchung, seduto in un caffè-libreria spazioso e tranquillo del centro di Pechino, parlando del suo Shengshi: Zhongguo 2013 (Prosperità: Cina 2013, appena tradotto in italiano da Longanesi come Il Demone della prosperità). «E’ stato un anno davvero ricco di eventi: la torcia olimpica contestata in tutto il mondo, e i nazionalisti cinesi che reagivano con furia, il giro di vite contro i dissidenti, il terremoto, la crisi economica in Occidente… Ho cercato un modo per scrivere di quel presente così straordinario perché credo che il 2008 sia stato l’inizio di un nuovo capitolo per la Cina, e trovo affascinante osservare quello che sta avvenendo qui». Così, partendo dalle riflessioni su quell’anno «appassionato ed emotivo», è nato un romanzo ambientato in un futuro molto prossimo, il 2013, che Chan ha immaginato come l’anno in cui la Cina è divenuta padrona del mondo intero, pur senza aver cambiato sistema politico. Per la prima volta, però, in questa Cina prossima ventura che anima Shengshi, nessuno sembra crucciarsi di quest’immobilità politica, anzi, tutti sembrano stranamente euforici nel regno del «90% di libertà». Gli unici a chiedersi che cosa renda tutti così allegri e immemori, disinteressati al fatto che un mese intero è scomparso dalla storia recente del Paese, sono i protagonisti del romanzo, un improbabile gruppo di amici che si mettono alla caccia del «mese mancante» incapaci di cadere nello stesso beato stupore dei loro contemporanei. La trovata narrativa straordinaria di Shengshi, infatti, è che tutti, nel romanzo, sanno che dopo una profondissima crisi economica globale, che ha brevemente toccato anche la Cina, ci siano stati disordini che hanno portato all’intervento dell’esercito con conseguenze spaventose, ma che solo un mese dopo sia iniziato un periodo di totale prosperità ed euforia: i giornali del mese mancante non sono reperibili nelle biblioteche e negli archivi, ma, con un chiaro eco al passato rimosso delle proteste e del massacro di Tiananmen, tutti vivono come se nulla fosse accaduto, abbandonandosi al presente e ai doni materiali che porta. Stranamente immuni da quest’amnesia collettiva, i nostri protagonisti vogliono capire come sia stato possibile imporre l’oblio, e cercano risposte anche man mano che i rischi aumentano: «La domanda dalla quale sono partito era: fra un paradiso chiaramente fittizio, artificiale, ed un buon inferno, di cui potersi fidare, che cosa sceglierebbero le persone? Vivendo a Pechino nel 2008 sembrava chiaro che l’unica scelta sarebbe stata per il paradiso finto». Così, la società che troviamo nel Demone della prosperità è un ibrido curioso, dove una popolazione ossessionata dalle gioie del consumismo e terrorizzata dal «caos» decide di evitare con ogni cura di farsi coinvolgere dalla politica e di porsi domande. Un testo schiettamente critico, dunque, che resuscita indirettamente proprio quel passato che Pechino ha rimosso con tanta cura: e non a caso, è un libro che non ha potuto essere pubblicato in Cina. Chan Koonchung, però, è definibile come un outsider: nato a Shanghai ma cresciuto a Hong Kong, dove ha avuto una carriera di editore di riviste di successo, mantiene tutt’ora la cittadinanza nell’ex-colonia britannica (dove non vige censura, e sia la stampa che l’editoria che Internet sono liberi), dove ha potuto pubblicare il suo romanzo: «Ma in Cina si è parlato molto del mio libro: qualcuno ha scannerizzato il testo uscito a Hong Kong e l’ha messo online, altri se lo sono fatto portare da Hong Kong. Molti editori cinesi mi hanno contattato interessati ad un’edizione cinese: ma quando ho detto loro di leggere prima il libro, non si sono più fatti sentire», dice Chan con un sorriso divertito. Ciò malgrado, Li Jun, una nota blogger cinese, ha scritto che dal 2009 divide le sue conoscenze «fra quelli che hanno letto Il Demone e quelli che non l’hanno fatto», e la risonanza del romanzo fa sì che Chan sia oggi un nome molto noto anche qui, dove è censurato. Una situazione forse pericolosa, data la facilità con cui il regime rende la vita dura a critici e dissidenti, ma per il momento Chan non conta di andare a vivere altrove: «mi considerano di Hong Kong, così fanno meno domande di quante non ne farebbero ad altri», dice, aggiungendo: «l’ascesa cinese è solo agli inizi, e per quanto Pechino non sia mai stata una bella città, voglio davvero restare qui e vedere come evolverà la situazione e cosa succederà nei prossimi tempi». «Quello che ho immaginato è uno scenario piuttosto benevolo, dopo tutto, e non è detto che il futuro sia davvero così: ci sono molti attori in gioco, dai militari all’apparato della sicurezza interna, e se alcuni di loro cominciassero a volere un ruolo più importante i cambiamenti potrebbero essere inquietanti. Finora, però ha regnato un certo pragmatismo. Quello che davvero mi stupisce è vedere come si sia arrivati a una società dove nessuno si fida più di nessuno, ma dove, contrariamente agli anni Ottanta, gli intellettuali, gli artisti, gli studenti sono stati cooptati, godono dei benefici della prosperità economica e non vogliono più svolgere il ruolo che avevano in precedenza»: un’accettazione acritica dello status quo molto simile a quella che popola le pagine di questo romanzo di semi-fantascienza, che parla di una nuova e strana era, che è già iniziata.
Ilaria Maria Sala
Fonte: La Stampa.it, 29 settembre 2012
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