Intervista a Yeonmi Park giovane attivista venduta in Cina
Intervista a una ragazza coraggiosa che ci parla dell’inferno della Corea del Nord, del traffico di esseri umani in Cina e di quanto è faticoso il pensiero critico.
Sorride molto Yeonmi Park. E sembra uscita da un manga. La incontro per parlare del suo memoir, La mia lotta per la libertà(Bompiani). Mentre guardo questa ragazza che ha la metà dei miei anni, nella testa si susseguono flash della sua vita. L’infanzia in Corea del Nord, immersa in una dittatura che investe anche i pensieri, il culto idolatrico del Leader Kim Il-sung, la propaganda - le addizioni si imparavano sommando i bastardi yankee uccisi - la fame, i campi di prigionia, i cadaveri. La fuga in Cina a 13 anni con sua madre e l’inizio di un incubo peggiore (come la maggior parte dei profughi finisce nelle mani dei trafficanti di esseri umani), l’attraversamento del deserto del Gobi, l’arrivo in Corea del Sud, gli studi e la volontà di raccontare tutto questo, di diventare un’attivista dei diritti umani. Combattere per chi non ha voce. Faccio fatica a staccarmi da queste immagini. Ma sorrido e comincio.
Cosa vuol dire crescere in Corea del Nord? Quando ci vivi non ti rendi conto di come è davvero, finché ero lì non ho mai pensato fosse una situazione ingiusta. È come se i i tuoi sensi fossero offuscati: non vedi, non senti, non assaggi, non ti puoi fidare di nessuno. Anche gli uccelli e i topi ti ascoltano. Ci sono spie ovunque.
Come convivevano dentro di lei le cose che le raccontavano e quelle che vedeva ogni giorno? Noi cantavamo “siamo il paese migliore del mondo”, siamo le persone più felici del mondo”, però soffrivamo la fame. Mia nonna si è uccisa prima della carestia per evitare di creare problemi al resto della famiglia. Eravamo immersi in un bipensiero: da una parte eravamo convinti che il nostro leader fosse un dio e che fossimo dei privilegiati, dall’altra vedevamo i cadaveri per strada. Un vero incubo.
Il libro comincia quando lei 13enne e sua madre (sua sorella Eunmi vi aveva precedute e di lei avete perso notizie per anni) attraversate il fiume Yalu per fuggire in Cina. Scrive che non sognava la libertà. Cosa sognava? Non conoscevo la parola libertà, non sapevo cosa volesse dire essere liberi. Ma guardavo illegalmente la tv cinese - per una cosa così si poteva finire in prigione! - e un giorno ho visto la pubblicità del latte. Non sapevo venisse dalle mucche e mi sono chiesta che gusto avesse. Il mio paese era proprio sul confine con la Cina, e la sera vedevo le luci elettriche che noi non avevamo. Pensavo a questo: alle luci, al latte e a una tazza di riso.
In Cina è stata venduta e per anni ha vissuto come amante di un «boss importante nell’universo dei trafficanti», Hongwei: si è convinta che quello che era a tutti gli effetti uno stupro fosse una transizione d’affari. Cosa prova per quest’uomo? È stato il periodo più disperato della mia vita, quello in cui mi sono sentita più impotente. Avevo 13 anni e da allora non ho più vissuto la mia infanzia. Ho chiuso la mente, mi sono raccontato delle storie per sopravvivere (In Order To Live è il titolo originale del libro), per me era tutto troppo. Sognavo di ucciderlo. Però ha salvato i miei genitori, e io per questo mi sono attaccata a lui. L’ho completamente perdonato e gli auguro ogni bene.
Scrive: «Nel mio lessico non esisteva la parola dignità o il concetto di moralità, solo alcune cose che mi sembravano sbagliate». Quando queste parole hanno iniziato ad avere un senso per lei?
Non ricordo il momento preciso. Ma so che è stato in Cina, quando ho cominciato a vedere come vivevano e venivano trattate le persone. Quando ho o cominciato a vedere la televisione della Corea del Sud, perché ero libero di farlo. La tv mi ha mostrato com’era diversa la vita in altri paesi del mondo e mi sono resa conto che mi meritavo di più. E a quel punto ho cominciato a combattere per la mia dignità.
Cos’è peggio della paura di morire? L’essere ignorati, dimenticati. Quando attraversavo il deserto del Gobi non mi spaventava tanto morire, ma il fatto che nessuno si sarebbe preoccupato di me se fossi morta.
Come descriverebbe la sua vita? Vittoriosa. Ho combattuto, ho vinto e continuo a combattere.
È cresciuta in una paese in cui non c’era il pensiero critico anzi in cui il pensiero veniva continuamente osteggiato. Come si impara a ragionare con la proprio testa?
Non è una cosa facile, anche perché la Corea del Nord nega l’individuo, non esiste l’io ma solo il noi: noi amiamo il nostro paese, noi amiamo il nostro caro Leader. Tendevo a credere a tutto quello che vedevo. E ho capito che è l’istruzione che ti insegna a pensare criticamente: il pensiero attivo ti costringe a scelte costanti. E le scelte hanno conseguenze di cui bisogna assumersi la responsabilità. Libertà vuol dire pensare tanto, richiede tanta pratica, tanta esperienza. Ecco perché si va a scuola, si viaggia. Per me ancora oggi andare la ristorante è complicato, faccio fatica a scegliere dal menù. C’è voluto tempo anche solo per capire quale fosse il mio colore preferito. Ma sto cercando di diventare critica, mi sto istruendo in questo senso.
Una volta la sua ambizione era comprare tutto il pane del mondo. Adesso? Sì, in Corea del Nord sognavo un cestino di pane. In Cina pensavo che avere una carta di identità che mi proteggesse avrebbe potuto rendermi felice. Ora ho tutto, sono libera, e il rischio è dare per scontata questa libertà. La felicità è qualcosa di molto relativo. Quando lavoravo come volontaria in America Latina e in altri paesi per aiutare le prostitute, ho scoperto che era importante dare un significato alla propria esistenza. Io ci sono riuscita, ho scritto questo libro. Ho la forza di cambiare il mondo e far sentire la mia voce e questo è il mio più grande succcesso.
Il regime la considera una traditrice, ha paura? Sì certo. Parliamo di un dittatore che ha ucciso suo zio, ha ucciso un generale che faceva un pisolino durante una riunione. Io gli sto dando del criminale… Ma sto vivendo un’extra vita. Avrei potuto morire e nessuno avrebbe saputo niente, e invece sono viva e le persone mi ascoltano. Penso sia il mio destino. Sono nata per questo. Spero però che l’unica vita sacrificata sia la mia, non quella dei miei parenti che sono ancora lì. Non è difficile rischiare la propria vita, ma quella degli altri.
Una lezione dal suo passato? Un po’ mi rattrista non aver avuto un’infanzia, sono sempre stata responsabile della mia vita. Ma nello stesso tempo sono grata di questo. Se avessi avuto il lusso di vivermela chissà quale sarebbe stato il mio destino. Il mio passato non mi impedisce di essere felice, la persona più felice che ci sia.
Come si presenterebbe a chi non la conosce? Sono un essere umano, un individuo con una dignità e una storia da raccontare. Sono visibile e voglio essere ascoltata perché sono sempre stata invisibile e messa in silenzio.
Come si vede tra dieci anni? Spero di essere più alta (ride), sapere meglio l’inglese, leggere tantissimi libri. E tornare a vivere in Corea del Nord. Mi sembrano cose fattibili e sono sicura che ci riuscirò prima di morire. Non voglio mica andare sulla luna, voglio solo tornare a casa mia.
Marieclaire.it, 28/12/2015
English version:
- The Guardian, Yeonmi Park: ‘I hope my book will shine a light on the darkest place in the world’
- Reason.com, Yeonmi Park’s North Korean Defector Story
Articoli correlati:
Condividi:

Condizioni di utilizzo - Terms of use |
---|
Potete liberamente stampare e far circolare tutti gli articoli pubblicati su LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, ma per favore citate la fonte. |
Feel free to copy and share all article on LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, but please quote the source. |
![]() Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Internazionale. |