Gli esclusi della Cina. Le minoranze etniche fanno paura

Milioni di persone rimaste tagliate fuori dalla crescita economica. Spesso appartenenti a minoranze etniche e rurali. Ora il governo 
ne ha paura. E vuole portarle in città .

La sua costruzione è iniziata nel 2011 e il risultato è ormai questione di mesi. Si parla di settembre. Avrà un’apertura sferica di 500 metri e sarà capace di ricevere segnali dallo spazio e di andare alla ricerca di intelligenza extraterrestre. Costerà oltre 180 milioni di euro e, soprattutto, obbligherà 9 mila persone a lasciare il proprio villaggio per farvi posto. Il più grande telescopio radio del mondo troverà casa in Cina, nella provincia montagnosa del Guizhou. E non è un caso. Questa è la provincia più desolata e povera del Paese. Il suo Pil è il 40 per cento di quello nazionale e il 17 per cento rispetto alla ricca Shanghai. Ha un ritardo di sviluppo di circa 10 anni rispetto alla media nazionale. Qui spostare centinaia di migliaia di persone in città dalle aree rurali o dai villaggi di montagna è considerato un modo per alleviare la povertà.

In questa regione della Cina sudoccidentale, dimenticata per decenni dal governo centrale, vivono alcune delle ultime minoranze cinesi: i Dong, gli Yao e i Miao, conosciuti per i tessuti dai colori sgargianti e le vistose collane in metallo battuto. Insieme rappresentano circa il 40 per cento della popolazione del Guizhou, chiara evidenza della sua povertà. In Cina le minoranze etniche occupano i gradini più bassi della scala sociale. Dove ci sono loro, c’è anche infinita disperazione.

Per decenni il Partito ha semplicemente offerto sussidi economici alle province più povere dell’impero, incoraggiando di fatto i governatori a mantenere lo status quo e a intascare una parte dei soldi in entrata. Con l’ascesa al potere, Xi Jinping ha cambiato marcia. E ha calibrato gli obiettivi dei governatori delle regioni svantaggiate e i fondi del governo centrale sul successo dei programmi di riduzione della povertà. L’intento è eliminare dal Paese la miseria peggiore entro il 2020.

Nel Guizhou il programma più applicato è l’ambizioso spostamento “guidato” entro il 2020 di 2 milioni di persone dalle campagne verso 180 città e distretti costruiti appositamente, con un investimento di oltre 2 miliardi e mezzo di euro. L’intenzione è quella di inserire chi vive ancora con meno di due dollari al giorno all’interno di un contesto produttivo moderno, trasformando i contadini e i montanari più giovani in operai, magari nei parchi industriali allestiti dal governo, e i più anziani in impiegati pubblici. Torri di venti piani si stanno sostituendo a templi centenari. Campi di basket ricoprono quelli di barbabietole. E piccoli villaggi sconosciuti sono stati trasformati in vialoni “delle minoranze” o “dell’ecologia”. «Lo spostamento dalle campagne alle città è il metodo più efficace per ridurre la povertà», ha dichiarato all’inizio del piano di ricollocazione l’allora segretario regionale di partito, Zhao Kezhi, oggi a capo della più ricca provincia dell’Hebei, «perché anche se costruissimo delle strade per raggiungere i villaggi di montagna isolati e portassimo loro acqua corrente, comunque il problema della povertà non sarebbe risolto».

Il processo di urbanizzazione in Cina è iniziato negli anni Ottanta, quando circa l’80 per cento dei cinesi viveva in campagna rispetto a poco più del 40 per cento di oggi. L’idea sottostante al trend è sempre stata quella di ottenere un maggior livello di urbanizzazione più velocemente di quanto non accadrebbe naturalmente, così da sostenere un alto livello di sviluppo economico. Ma se molti abitanti rurali sono felici del cambiamento di vita offerto dal governo, non pochi, soprattutto ora che l’economia manifatturiera traballa, si chiedono di che cosa vivranno una volta finiti i soldi ricavati dalla vendita della terra che per centinaia di anni è stata garanzia di sopravvivenza. Trovare lavoro non è più così semplice come qualche anno fa. Gli operai non specializzati servono sempre meno. E poi i nuovi appartamenti offerti dal governo non sono completamente gratuiti. Ogni famiglia, già sul filo della sussistenza, si è dovuta indebitare fino al collo per pagare quei 700-800 euro necessari a saldare il conto. E l’unica speranza di ripagare il debito sono spesso i figli spediti sulle città costiere in cerca di fortuna.

In realtà non è tanto la povertà in sé a condurre lo sguardo di Pechino su zone sfortunate come il Guizhou, a più riprese dilaniate da erosioni pluviali e altre catastrofi naturali. Piuttosto la paura dei possibili effetti di una disuguaglianza tra ricchi e poveri sempre più profonda. Come gridano le statistiche, oggi ci sono due diverse tipologie di “un per cento” in Cina: l’un per cento di popolazione che detiene il 30 per cento della ricchezza del Paese e l’un per cento di ricchezza che è detenuto da un quarto della popolazione. Due “un per cento” lontanissimi tra loro. Che non si parlano. Che non si mescolano. E che stanno mettono a repentaglio quella stabilità sociale su cui si basa il dominio assoluto del Partito Comunista.

L’inuguaglianza in Cina è cresciuta di pari passo con il benessere a partire dal 1979, quando è cominciato il processo di riforme e apertura voluto da Deng Xiaoping. Questi legalizzò l’attività imprenditoriale sapendo bene che non avrebbe beneficiato tutti, non subito, non equamente, tanto da dichiarare «Lasciamo che alcune persone diventino ricche prima». Ma non poteva immaginare la velocità alla quale il divario tra ricchi e poveri si sarebbe trasformato in voragine. Se il coefficiente di Gini (che misura il livello di diseguaglianza economica interno di un Paese) si fermava a 0,30 nel 1980, nel 2012 era già salito a 0,49. Secondo la Banca mondiale un coefficiente superiore a 0,4 è un campanello di allarme di una situazione insostenibile che scatta quando raggiunge lo 0,5 per cento, triste record superato nel mondo solo da Sud Africa e Brasile, rispettivamente allo 0,63 e 0,53. Gli Stati Uniti, tanto per citare il Paese dei Paperon de Paperoni, si fermano a 0,41.

Secondo gli studiosi, ora che ha allargato la torta della ricchezza generale Pechino dovrebbe accelerare l’introduzione di piani di ridistribuzione della ricchezza, come il taglio di salari e benefit ai “grand commis” di Stato - in Cina ci sono più miliardari che negli Usa - e attuare la riforma del lacunoso sistema pensionistico, così da garantire un livello di vita adeguato a una popolazione sempre più anziana. Ma convincere gli attuali beneficiari del successo cinese a cedere parte della loro ricchezza non sarà facile. Soprattutto perché sono proprio le 500 famiglie legate al potere ad essersi arricchite più velocemente del resto degli abitanti.

Basta aggirarsi qualche ora in Rete per capire come siano divenuti sempre più frequenti i riferimenti obliqui alla cosiddetta “famiglia di Zhao”. Il termine risale a un libro del celebre scrittore Lu Xun, “La vera storia di Ah Q”, nella quale il vecchio Zhao urla al povero Ah Q quando questi vorrebbe festeggiare con lui: «Credi di essere degno del cognome Zhao?». Oggi questa è la metafora più utilizzata per definire la cricca di potere e di business e per sottolineare la differenza di status tra chi governa e chi è governato, tra chi sta guadagnando dalla crescita economica e chi no: insomma la differenza tra gli Zhao e i non Zhao. Nella convinzione sempre più diffusa che il Paese appartenga a una ristretta élite di ricchi che agisce solo nel proprio interesse e non più in quello del suo immenso popolo. E che dunque, a rigor di logica millenaria, dovrebbe essere rimossa e sostituita da una nuova classe dirigente. Com’è toccato alle dinastie del passato, quando per ingordigia o incompetenza perdevano la fiducia della loro gente.

L’Espresso,08/03/2016

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