Cinesi d’Italia
Antologia di amici, tifosi e mediatori. Quanto è stretto il legame ideologico ed economico fra Roma e Pechino
“Ce lo indicano: è rotondo, gentile e modesto; pare che prima avesse maniere presuntuose, ma ora, rieducato come lavoratore, fa il suo mestiere con relativa soddisfazione degli altri”. Maria Antonietta Macciocchi si giocò sulla Cina le possibilità di essere ricandidata. Scrittrice e giornalista arrivata alla Camera dei deputati nel 1968, entrò in rotta di collisione con il Partito comunista che ce l’aveva portata per le sue posizioni spesso eterodosse.
foto: Ansa
Nel 1971, di ritorno da un viaggio nell’estremo oriente, pubblicò un tomo di 560 pagine dal titolo “Dalla Cina”, in cui esaltava l’ex Celeste impero ormai trasformatosi in regno del socialismo. Il bollino di “maoista” le costò l’allontanamento dal partito e il depennamento dalle liste elettorali, nelle quali ritornò anni dopo tra le fila dei Radicali, ma questa è un’altra storia.
Il fascino per la Cina, del suo mito rivoluzionario, è un retaggio culturale che viaggia carsico nei meandri della politica italiana. Nato come via alternativa al paradiso comunista che l’Unione sovietica non poteva più essere dopo lo squadernamento di Krusciov dei crimini di Stalin, ha rappresentato il sogno di un modello comunista non burocratico e non protocollare, una rivoluzione che non solo creava un nuovo modello di convivenza, ma che rendeva migliori gli uomini, e che, aspetto tutt’altro che secondario, non aveva tradito il marxismo-leninismo, suggestioni che il reportage della Macciocchi contribuì ad alimentare.
Spiega una fonte diplomatica che “poi, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, il maoismo ha travalicato il suo senso iniziale, è diventato uno dei motori o delle scuse di un terzaforzismo che molti in politica rivendicavano, e che è stata la cifra caratterizzante di un lungo periodo della politica italiana”.
E dunque Beppe Grillo e Massimo D’Alema arrivano buoni ultimi a ravvivare un filone che si riteneva sopito. Il primo con intemerate anti G7 in funzione filo cinese, che secondo il democratico Enrico Borghi “rispolverano l’armamentario anni ’70” e andando a omaggiare per l’ennesima volta l’ambasciatore di turno a Roma, il secondo con un’intervista a New China Tv nella quale elogia il Paese per lo “straordinario salto verso la modernità e il progresso” e per aver fatto “uscire almeno 800 milioni di persone dalla povertà”, oltre a chiedere uno “sforzo per riprendere la via di una forte collaborazione”.
La nemesi per il fondatore del Movimento 5 stelle è totale, lui, cacciato dalla Rai proprio per una battuta su Bettino Craxi e un suo viaggio a Pechino. Era il 1986, la trasmissione Fantastico 7, e Grillo attaccò: “A un certo punto Martelli ha chiamato Craxi e ha detto: “Ma senti un po’, qua ce n’è un miliardo e son tutti socialisti?’. Craxi ha detto: ‘Sì perché?’. ’Ma allora, se son tutti socialisti a chi rubano?”. Apriti cielo, via dalla televisione pubblica, a rischio le relazioni diplomatiche. Il viaggio in pompa magna del leader socialista all’epoca fu molto criticato per le fanfare di una delegazione considerata monstre, “una trasferta del Circo Orfei”, come la bollò Enzo Biagi. Un paio d’anni fa Stefano Rolando, all’epoca direttore generale e capo dipartimento Informazione ed editoria alla presidenza del Consiglio, raccontò al Foglio che in realtà ad accompagnare il presidente furono una sessantina di persone, ognuno con un compito specifico. Lo stesso Rolando attribuisce l’equivoco a un episodio particolare: “Eravamo appena arrivati a Pechino, e mentre si aprì lo sportello, il cronista dell’Ansa Pio Mastrobuoni, che in seguito diventò suo portavoce, domandò un commento all’allora ministro degli Esteri, e lui disse: ‘Eh, siamo qui con Craxi e i suoi cari’, una battuta tipica andreottiana, che però venne poi molto enfatizzata, più di quanto avrebbe pensato lo stesso Andreotti”.
Fu Pietro Nenni ad aprire il primo “canale cinese” con un viaggio a Pechino nel 1955, dove fu ricevuto da Mao Tse Tung in persona. Quando nel 1969 divenne ministro degli Esteri, diede l’impulso decisivo per il riconoscimento diplomatico l’anno seguente, un evento del quale non è stato festeggiato il cinquantennale solo perché caduto l’anno scorso in piena epidemia di Covid. Dopo di lui a Pechino arrivò anche un giovane Achille Occhetto, spedito da Luigi Longo con una delegazione di giovani comunisti per una ricognizione sulle posizioni della guerra del Vietnam.
Mentre allora il Pci rompeva definitivamente i ponti sulla questione della coesistenza pacifica, la versione maoista del sol dell’avvenire, un sole che quel tipo di narrazione voleva assai più libertario ed egualitario rispetto alla grigia e violenta propaganda sovietica, ha fatto per anni breccia nel mondo culturale e politico italiano. “Fu un errore - ammise anni dopo Luigi Pintor - una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello sovietico con altri modelli internazionali; restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo - sbagliando - valenze liberatrici”. Ma quando Mao nel 1976 passò a miglior vita, lo stesso Nenni pianse la sua “rivoluzione da ricondurre sempre alla misura umana per evitare il rischio di cadere nella tirannia”, e più in generale molti intellettuali italiani sostennero le ragioni del Celeste impero del comunismo, da “l’utopia realizzata” secondo Alberto Moravia a Dario Fo, da Edoardo Sanguineti a Rossana Rossanda, che ancora nel 2006, per il trentennale della morte, scriveva che Mao ha fatto per il 70 per cento cose giuste e per il 30 per cento cose sbagliate: grazie al suo 70 per cento noi siamo in un giusto differente. Onore a Mao”.
Ritrattò e cambiò totalmente linea Aldo Brandirali, tra i fondatori del Partito Comunista marxista-leninista italiano, un impatto nel dibattito pubblico sicuramente superiore a quello elettorale (lo 0,26% alle elezioni del 1972 sotto la sigla si Servire il popolo), passato poi a Comunione e liberazione e a un assessorato a Milano ai tempi della giunta di Gabriele Albertini. Nel suo partito di estrema sinistra che annoverava tra i suoi principali slogan “Stalin! Mao! Bran-di-rali!” sono transitati politici come Nicola Latorre, Barbara Pollastrini, Linda Lanzillotta, ma anche registi come Marco Bellocchio, cantautori come Pierangelo Bertoli e scrittori come Antonio Pennacchi.
Troppo lontana per essere vissuta come un reale pericolo, troppo potente per non usare il guanto di velluto anziché il pugno di ferro, troppo funzionale a battaglie politiche tutte interne, la Cina ha sempre goduto di un’alone di mistico rispetto per buona parte della sinistra, di sostanziale indifferenza nell’opinione pubblica.
Di aerei di stato con il capo di governo di turno e “i suoi cari” sono costellati anche i cieli della storia recente. “Lo sviluppo della Cina, è un fatto inarrestabile, tenerne conto un obbligo, esserne coinvolti è una necessità vitale. A questo l’Italia non può né intende sottrarsi”, parola di Carlo Azeglio Ciampi, a Shangai nel dicembre del 2004 per un Forum delle Imprese, organizzato dalla Confindustria e dall’Istituto per il commercio estero. Due anni dopo fece il bis Romano Prodi, nel 2008 fu la volta di Silvio Berlusconi, nel 2010 fu la volta di Giorgio Napolitano mentre nel 2016 a Pechino volò Matteo Renzi. E questo solo per citarne alcuni. Visite ricambiate. Hu Jintao, a margine delle riunioni del 2009 del G8 a L’Aquila, Hu Jintao incontrò tutte le principali cariche istituzionali italiane, trecento aziende al seguito e firmando nove accordi bilaterali. Visita replicata una decade dopo dal suo successore Xi Jinping per la firma del memorandum d’intesa sulla nuova Via della seta e il relativo strascico di polemiche per i 5 stelle al governo e il tradimento delle posizioni filo atlantiste. Un memorandum che secondo come osservato per l’Ispi dalla professoressa Donatella Strangio, Ordinaria di Storia Economica alla Sapienza, “mira alla ridefinizione del ruolo geopolitico della Cina e allo scardinamento degli equilibri di potere globali - con il suo ampio programma di investimenti infrastrutturali nei Paesi del Sud Est asiatico, dell’Asia centrale e dell’Africa, il lancio di due nuovi organismi finanziari internazionali e l’apertura di sei corridoi economici che legano le megalopoli cinesi al resto del mondo”.
Tutti incroci che hanno una robusta motivazione economica, ma tutti incroci che hanno sempre implicato sospetti e attenzioni sul versante politico per la loro linea soft sul versante dei diritti e delle libertà democratiche. Il perché sia un terreno scivoloso lo spiega la nostra fonte diplomatica: “In politica estera conta prendere impegni chiari e mantenerli, conta distinguere chi è alleato e chi è un semplice partner. Se inizi a confondere questo, la tua politica estera perde identità, e se perdi identità perdi rilevanza internazionale”. Ne sa qualcosa Emma Bonino, nella delegazione del 2006 con Prodi in qualità di ministro del Commercio con l’estero, accusata dagli avversari politici di non aver detto una parola di biasimo sulle violazioni dei diritti umani nel paese: “Mi aspettavo di più da lei, avendo conosciuto da vicino tutte le battaglie fatte in passato”, il commento di Marco Taradash, compagno di tante battaglie e poi transitato nell’orbita del centrodestra.
Divenne un caso la visita nel 2007 del Dalai Lama, non ricevuto da Prodi per ragioni di stato. Allora Bonino protestò: “Ritengo che su determinati punti occorra spiegare ai nostri amici cinesi che i nostri valori sono diversi”, mentre D’Alema, ministro degli Esteri, fece spallucce: “Non credo che il governo fosse tenuto a parlare con il Dalai Lama”. L’acme della crisi si raggiunse allorché l’ambasciatore Dong Jinyi rappresentò al presidente della Camera, il pericoloso compagno Fausto Bertinotti, una vibrata protesta per l’invito a Montecitorio: “Ho manifestato l’auspicio che il Parlamento italiano, la massima istituzione di questo Paese, non offra facilitazioni né luogo al Dalai Lama […] perché le sue parole sono bugie e menzogne”.
Le vibrate proteste sono d’altronde consuete per le feluche di Pechino. Lo scorso 3 marzo sul sito dell’ambasciata è comparso uno statement così titolato: “L’Ambasciatore Li Junhua presenta le rimostranze alla Farnesina riguardo le sanzioni europee alla Cina con la scusa della questione dei diritti umani dello Xinjiang”. Vi si ricorda, tra le altre cose, che “Il popolo cinese si attiene al principio ‘se ricevo uno, do in cambio dieci’, ma al contempo anche a ‘se qualcuno mi offende, io rispondo sicuramente’”, che proprio bene non suona. Quasi tre mesi dopo, il 27 maggio, ecco la protesta per una risoluzione sull’argomento approvata in commissione Esteri alla Camera: “Lo Xinjiang è il territorio della Cina e i suoi affari sono puramente affari interni della Cina, che non ammettono interferenze da parte di forze esterne”.
Per i cent’anni dalla fondazione del Partito comunista cinese, Li Junhua ha scritto un intervento dal titolo “Rendere più felice il popolo e migliore il mondo”. Vi si legge che “non molto tempo fa, il presidente Xi Jinping ha dichiarato solennemente al mondo che la Cina ha ottenuto una vittoria assoluta nella lotta alla povertà”. Ricorda qualcosa?
Gli incroci si rincorrono. E ritornano periodicamente perché alla base c’è un legame economico sempre più stretto. Quanto la Cina è importante per l’economia italiana lo sanno bene le imprese del distretto tessile di Biella. A Pechino e dintorni vanno a ruba gli articoli di abbigliamento che vengono prodotti nella terra dei telai. Ma ai cinesi piacciono moltissimo anche i nostri mobili in legno, le scarpe, i saponi, i profumi e i vini. Ancora hanno bisogno dei nostri preparati farmaceutici e dei componenti elettronici. L’elenco è lungo, soprattutto eterogeneo e già questo elemento mette in evidenza il grado di dipendenza dell’Italia rispetto alle esportazioni verso la Cina: è la nona destinazione di tutto l’export, con una quota del 2,7% (la prima è la Germania con una fetta pari al 12,4%). Esportiamo insieme agli altri Paesi europei, ma tra il 2011 e il 2019 siamo cresciuti rispetto agli altri nel tessile e negli articoli in pelle e cuoio e questo ci ha permesso di diventare in questo campo il principale partner della Cina nell’Unione europea.
Alla Cina diamo, dalla Cina prendiamo. Un’elaborazione dell’Ice su dati Istat mette bene in luce il valore dell’interscambio commerciale registrato nel 2020: è stato pari a circa 45 miliardi. Abbiamo esportato prodotti per 12,8 miliardi e abbiamo portato dentro i confini italiani prodotti per 32,1 miliardi. La sproporzione della bilancia verso le importazioni spiega quanto dipendiamo dalla Cina anche da questo punto di vista: computer e prodotti di elettronica, orologi e apparecchi elettromedicali fanno parte del comparto più consistente dei prodotti che arrivano da Oriente. La mobilità interna dei prodotti scambiati è però fluida e questo dipende soprattutto dal mutamento dell’economia cinese, sempre più proiettata verso il digitale e l’intelligenza artificiale. La quota del made in Italy legata al tessile, tuttavia, riesce a passare indenne attraverso queste trasformazioni che sono repentine, assai vulnerabili, e che sono soprattutto strettamente connesse all’evoluzione della sfida globale con gli Stati Uniti. La guerra dei semiconduttori, solo per citare un esempio, è la spia di un riposizionamento che sarà foriero di novità.
E poi ci sono movimenti che riguardano dinamiche già in corso da alcuni anni, come la transizione verso le macchine elettriche. La Cina è oggi il più grande Paese produttore al mondo di vetture a batterie. E punta al mercato europeo. Cinque anni fa, al contrario, l’automotive italiano raggiunse un picco in termini di valore dell’export verso il Dragone: 1,8 miliardi, per poi calare a 642 milioni nel 2019. Sempre cinque anni fa, esattamente il 22 marzo 2017, i cinesi comprarono online 350 Alfa Romeo Giulia in 33 secondi. Ma per un comparto che è in discesa ce ne sono altri che vanno benissimo, ancora meglio rispetto al recente passato. Come spiega uno studio approfondito del Centro Studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina a cura del direttore Filippo Fasulo, sia gli articoli di abbigliamento che i prodotti farmaceutici sono cresciuti intorno al 50% e proprio questi due settori - abbigliamento, pelle e prodotti tessile valgono circa 2,3 miliardi mentre farmaceutico e chimico circa 2 miliardi - rappresentano i due terzi dell’export italiano, insieme ai macchinari e alle apparecchiature che totalizzano 4,3 miliardi.
Ma al di là di queste dinamiche, il dato più rilevante è che il legame economico tra Roma e Pechino, nato cinquant’anni fa, si è stabilizzato negli ultimi anni: le quote di export e di import, infatti, sono sostanzialmente stabili dal 2018 in poi. Anche la pandemia non ha intaccato più di tanto il segno di questa tendenza: come scrive la Fondazione Italia-Cina nel suo ultimo rapporto “alcune linee di tendenza rimangono stabili anche per il 2020 e i primi mesi del 2021, trattandosi di dinamiche di lungo periodo che hanno vissuto una accelerazione nei primi sei mesi del 2020”. Andando più indietro rispetto all’ultimo triennio, la corsa in avanti di questo legame si evince anche da un altro snodo, quello dell′11 dicembre 2001, quando la Cina è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’interscambio con l’Italia, che fino ad allora si attestava intorno ai 9 miliardi, è quadruplicato nel corso di un decennio, per arrivare ai circa 45 miliardi dell’anno scorso.
Questo interscambio fa bene soprattutto a un pezzo di Italia. Nell’ambito delle esportazioni italiane in Cina è possibile individuare i settori e i distretti che hanno ottenuto i risultati migliori secondo un valore qualificato. Sono il distretto tessile di Biella, ma anche le macchine per l’industria cartaria di Lucca, la meccanica strumentale del bresciano. Qui ritorna il carattere eterogeneo della natura dei rapporti economici e commerciali: sono andati bene anche l’oreficeria di Arezzo, il legno e l’arredamento della Brianza, l’abbigliamento di Empoli e Rimini. E poi la nautica di Viareggio e la cosiddetta Valle dei jeans di Montefeltro, nelle Marche.
Fin qui quello che si evince dai dati italiani. Esiste, infatti, una forte differenza tra le rilevazioni dell’Istat e quelle delle Dogane cinesi. Vista dalla Cina, nel 2019 ,il settore di maggiori esportazioni cinesi in Italia si riconferma quello dei macchinari e delle attrezzature elettriche, che raggiungono la cifra di 6,7 miliardi di dollari (-3,55%), mentre al secondo posto si trova la voce macchinari e tecnologia nucleare per la cifra di 5,9 miliardi di dollari (-1,58%). Il settore che registra il più elevato tasso di crescita è quello dei prodotti generici, con un aumento del 14%. Per quanto riguarda l’export italiano in Cina, i due settori trainanti restano quello dei macchinari e delle tecnologie nucleari (valore 5,166 miliardi, -6,59%) e dei prodotti chimico-farmaceutici (2,884 milioni, +5,6%). In generale, si registra una contrazione, tranne che per il settore tessile con i prodotti in cuoio e per il settore dei prodotti chimici.
Al di là dell’analisi settoriale dei flussi, questo interscambio poggia su una presenza importante di imprese italiane in Cina. Sono circa 1.700, con oltre 170 mila addetti e un giro d’affari vicino ai 30 miliardi. A queste imprese vanno sommate quasi 500 a capitale italiano domiciliate ad Hong Kong e che contano quasi 20mila addetti e un giro d’affari di 10 miliardi. La maggior parte delle 1.700 imprese sono controllate da una casa madre italiana mentre negli altri casi una o più imprese italiane detengono quote non di controllo nel capitale dell’impresa cinese. Nel corso degli anni la quota di queste imprese è aumentata numericamente, ma a questa crescita si è accompagnata anche un’evoluzione qualitativa. Agli inizi degli anni Duemila, infatti, i due terzi delle imprese italiane presenti in Cina lo erano soltanto con uffici di rappresentanza e meno di 300 erano le imprese italiane presenti con una joint venture: oggi questo numero è cresciuto di quasi sette volte. Se prima gli investimenti erano concentrati soprattutto sull’automotive, nella meccanica strumentale e nelle attività manifatturiere a basso e medio livello tecnologico dei settori tipici del made in Italy, negli ultimi vent’anni si sono registrati investimenti maggiori anche in altri settori come l’alimentare.
La Cina è sempre più punto di approdo anche per le grandi aziende italiane. Eni, che è presente dal 2012, ha siglato un accordo con Bank of China per una collaborazione con China National Offshore Oil Corporation e PetroChina, i due grandi colossi energetici del Paese. Si sta muovendo, e da tempo, anche Menarini nel campo florido della farmaceutica. All’inverso, la presenza cinese in Italia si sta rafforzando: a fine 2019, secondo quanto si evince da una relazione del Copasir, risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare Cinese e 135 con sede principale a Hong Kong, attraverso almeno un’impresa partecipata. Le imprese italiane partecipate da tali gruppi sono in tutto 760 e la loro occupazione è di poco superiore a 43.700 unità, con un giro d’affari di oltre 25,2 miliardi. Italia-Cina: l’interscambio è tale se crea profitti a entrambi.
Fonte: HuffPost,18/06/2021
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