Cina: l’inquinamento che uccide e un popolo che si ribella

La notte del 12 agosto una serie di esplosioni presso un deposito chimico ha scosso la città portuale di Tianjin, a 75 miglia da Pechino. Più di 150 persone sono rimaste uccise, mentre tra i cinesi ha cominciato a serpeggiare la rabbia: come potevano sostanze chimiche così pericolose essere conservate così vicino a zone residenziali, in totale violazione delle norme di sicurezza nazionali? E mentre sui social media si scatenava l’indignazione e i dibattiti, la protesta si è presto trasferita per le strade ed è durata per giorni. Si tratta di uno degli episodi più eclatanti e conosciuti di mobilitazione, ma non certo l’unico, a testimonianza della crescente preoccupazione dei cinesi per l’inquinamento ambientale del paese che sta causando seri problemi alla salute delle acque, dell’aria, della terra, e delle persone stesse.

L’industrializzazione e la velocissima ascesa economica del paese, infatti, è costata moltissimo alla Cina in termini ambientali. Con l’aumento del reddito pro-capite, però, i cinesi hanno iniziato a sviluppare anche una coscienza ecologica come mai in passato: dopotutto sono problemi che vivono quotidianamente sulla propria pelle, tanto che, secondo un sondaggio pubblicato dal Pew Research Center a settembre, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua sono in seconda e terza posizione nella lista delle principali preoccupazioni dei cittadini (la prima è la corruzione, che comunque spesso e volentieri è legata all’inquinamento). Proprio per questo, nonostante le repressioni e i tentativi di censura da parte delle autorità, i cinesi ormai hanno sempre meno paura di scendere in piazza per protestare contro le aziende inquinanti, e per chiedere al governo un cambio di rotta e una politica più “verde”.

Un punto di svolta in questo senso potrebbe essere il giugno 2007, quando decine di migliaia di cittadini della città meridionale di Xiamen si sono sollevati contro una fabbrica di paraxilene - un prodotto chimico comunemente noto come PX. Da lì in poi, numerosi episodi analoghi si sono diffusi in tutto il paese, con una partecipazione sempre più ampia. Le autorità li chiamano “incidenti di massa”, e secondo alcune ricerche sarebbero almeno 180mila l’anno, con le proteste ambientali che negli ultimi tempi avrebbero superato quelle relative al mondo del lavoro e agli espropri terrieri, aumentando di oltre il 120 percento. Qual è il loro esito? La repressione e l’arresto dei “capi” è in genere una regola, certo, ma capita sempre più spesso che i funzionari locali, pur di evitare i disordini, finiscano per andare incontro alle richieste dei dimostranti. Piccole concessioni, micro-vittorie locali, spesso funzionali allo stesso governo per mantenere frammentata la protesta: l’emergere di un gruppo ambientalista strutturato e nazionale è diventata infatti una seria preoccupazione per le autorità cinesi, dato che potrebbe facilmente trasformarsi in qualcosa di più pericoloso. Dall’ambiente, alla politica, alla messa in discussione dell’intero sistema cinese, il passo può essere breve.

Ecco perché, nonostante lo stesso governo abbia finalmente ammesso che il problema dell’inquinamento è reale, gli arresti e la censura degli attivisti non si sono certo fermati. Una sorta di bastone e carota, dettato forse dall’incertezza più che da una strategia: da una parte, infatti, il governo ha preso degli impegni seri a livello nazionale, come il taglio delle emissioni, gli investimenti nelle rinnovabili e le nuove leggi in favore dell’ambiente (tra cui perfino una a favore dei gruppi attivisti, che per la prima volta consente alle organizzazioni non governative di portare in tribunale le aziende inquinanti). Da settembre si è anche impegnato a fornire dati più completi sulla qualità dell’aria di Pechino e a migliorare gli sforzi per il controllo dell’inquinamento. Dall’altra, però, è tuttora in corso una stretta contro le ong straniere, mentre lo stato di polizia interno, a livello reale e virtuale, è sempre più attivo che mai. I cittadini, dal canto loro, continuano a organizzarsi e a comunicare in rete, attraverso social media interni come Sina Weibo, un servizio di microblog simile a Twitter, o la chat di Weixin, con cui denunciano le varie situazioni tramite racconti e foto, diffondono campagne ambientali e chiamate all’azione, inventandosi modi sempre più creativi per sfuggire alla censura (secondo uno studio americano dell’Università dello Utah, sarebbero ad esempio diventati dei veri e propri maestri dei “meme”).

Peccato che, quando le contestazioni diventano pericolose, ecco che i post magicamente spariscono, ad opera di quella formidabile macchina di censura digitale chiamata “Great Firewall”. La vicenda di “Under the dome” (Sotto la cupola), l’esplosivo documentario sull’inquinamento ambientale in Cina, è emblematica. Pubblicato in rete all’inizio dell’anno scorso dalla giornalista investigativa Chai Jing, in appena due giorni era già stato visualizzato da 200 milioni di persone su portali video cinesi come Youku e Tencent, generando contemporaneamente un enorme dibattito sui social network. Tanto che il 3 marzo, dopo appena 48 ore, era già sparito da tutti i portali. La visione di Chai Jing in jeans e maglietta bianca che per 103 minuti spiegava ad un pubblico attento e preoccupato i devastanti effetti dello smog e dell’inquinamento nel proprio paese ha avuto un effetto dirompente, così come la sua narrazione fatta alternando i dati e gli studi scientifici a racconti più personali, storie, interviste e video impressionanti.

Per il popolo cinese, più che uno shock è stata un ulteriore conferma dei loro peggiori timori. Gli “airpocalypses” che a intervalli colpiscono le grandi città li abbiamo visti tutti, in particolare a dicembre, quando il doppio “allarme rosso” diramato per la prima volta dal governo cinese – e proprio mentre i funzionari volavano alla Cop21 per discutere del taglio delle emissioni – ha paralizzato Pechino e altri quattro grandi centri cinesi. In quei giorni la concentrazione di polveri sottili PM2.5 (con un diametro inferiore a 2.5 micron) in alcune zone della metropoli avevano oltrepassato i 500 microgrammi al metro cubo. Ed è niente in confronto a novembre, quando in alcune zone la concentrazione di polveri è arrivata addirittura a 1.400 (allora era stato diramato solo l’allarme “arancione”). Per capire la portata: l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda un’esposizione massima a 25 microgrammi per metro cubo nel corso di un periodo di 24 ore, mentre secondo la legge cinese il livello da non superare è di 35.

Questo tipo di polveri, proprio perché così sottili, rischiano di essere inalate dai polmoni e assorbite nel sangue, contribuendo così alla comparsa di malattie cardiovascolari, infarti, enfisemi, e tumori polmonari. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PLoS One in agosto ha stimato che l’inquinamento atmosferico contribuisce alla morte di ben 1,6 milioni di persone in Cina ogni anno. Ma non solo. Secondo i dati resi pubblici due anni fa dallo stesso Ministero della Protezione Ambientale, circa il 20 per cento dei terreni agricoli del paese è inquinato, così come lo è il 60 per cento delle acque sotterranee. I cinesi ormai questi dati li conoscono, e “Under the dome” ha avuto così tanto successo proprio perché ha trovato un pubblico pronto, che ogni giorno vive in prima persona gli effetti catastrofici dello smog quotidiano, tra mascherine, i filtri dell’aria, la tosse costante, i bambini in ospedale, le scuole chiuse, gli incidenti e le catastrofi. E che, proprio per questo, non ha più intenzione di restare in silenzio.


Fonte: Anna Toro, Unimondo.org, 15 gen 16

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