Il brutale sistema carcerario cinese visto dall’interno

George Karimi, Epoch Times, 21.03.2014
Ormai molti di noi avranno avuto modo di ascoltare le promesse del Partito Comunista Cinese di porre fine al suo sistema dei campi di lavoro forzato. Benché mi auguro sinceramente che questo accada, le altre forme di detenzione in Cina non sono scomparse, in particolare il famigerato sistema di prigionia del regime continua a rimanere come sempre brutale e senza leggi. Sono stato un detenuto delle prigioni cinesi per sette anni e ho visto e vissuto le condizioni che presentano.

Nei Paesi al di fuori della Cina, là dove agli ispettori è consentito indagare, sono stati segnalati gli abusi in atto. Ma il Partito Comunista, da quando è salito al potere nel 1949, non ha mai permesso lo svolgersi di indagini indipendenti e non controllate sul suo vasto sistema di detenzione. Quando nel 2005 gli ispettori delle Nazioni Unite hanno visitato gli impianti di detenzione, i loro spostamenti sono stati rigidamente limitati.

Nel 2005 sono stato incarcerato nel centro di detenzione Qichu di Pechino, all’interno del quale era stata concessa la visita a Manfred Nowak, il relatore speciale delle Nazioni Unite. Alla fine però il relatore Onu non è riuscito a ottenere alcuna intervista con i prigionieri occidentali o cinesi ma gli è stato solamente concesso di osservare le condizioni nelle celle tramite i monitor. Nowak ha riferito che tutti gli sforzi per intervistare gli ex detenuti, i loro familiari, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani hanno risentito dell’interferenza del Governo.

Le condizioni nelle carceri cinesi sono orribili. Le ho viste con i miei occhi. Le celle misuravano tra i sette e i 21 metri quadrati e c’erano tra i sei e i sedici detenuti ammassati dentro. Abbiamo dormito, mangiato e defecato in queste minuscole stanze. Il cibo era disgustoso e non passava un giorno in cui non venivamo fisicamente e psicologicamente torturati dalle guardie o da altri detenuti ‘reclutati’ per farlo.

Le percosse, la fame e il lavoro forzato sono tutte cose che fanno parte della vita di coloro che sono rinchiusi nelle carceri cinesi. Persino le lamentele più leggere possono causare una punizione o addirittura la morte per te o per un altro detenuto. Ho saputo di alcuni prigionieri che a causa di queste condizioni così oltraggiose hanno tentato di suicidarsi. Solo qualcuno ci è riuscito e coloro che non hanno avuto successo, sono stati puniti severamente.

Le guardie a volte per estorcere confessioni ai prigionieri ‒ sui reati per i quali erano stati accusati ‒ rompevano loro le dita, somministravano scosse elettriche e, se non volevano procurare loro ferite visibili, li esponevano semplicemente all’acqua ghiacciata oppure li costringevano a tenere posture debilitanti per ore.

Le ambasciate nei Paesi occidentali sono venute a conoscenza di tutto questo da me, ma non hanno fatto niente per alzare la voce, forse perché non vogliono compromettere i rapporti del loro Paese con la Cina.

Nel periodo della mia prigionia dal 2003 al 2010, ho assistito anche all’emissione di nuove leggi e ascoltato la Cina fare un sacco di promesse su come migliorare le proprie politiche sui diritti umani. Molti in Occidente hanno pensato che aiutare a migliorare l’economia cinese e concederle le Olimpiadi del 2008 avrebbe in qualche modo portato come risultato a un aumento del rispetto dei diritti umani o persino della democrazia. Si è rivelata un’illusione. Questa finzione, insieme all’avidità sociale, ha unicamente aiutato il regime cinese a occultare la verità sui suoi abusi, mentre tutti continuano a badare ai propri affari come al solito.

Ovviamente, anche il prostrarsi dell’occidente è stato utilizzato dalla macchina di propaganda del Partito Comunista per legittimare il suo dominio. Il sistema di propaganda interna, che produce falsi film per mostrare come sia bonaria la vita carceraria in Cina, lascia intendere che il pubblico cinese sia tenuto all’oscuro. I media stranieri hanno solo fatto un po’ di luce sulle condizioni in queste strutture di detenzione, in parte perché un’indagine approfondita potrebbe comportare l’essere espulsi dalla Cina.

Questo è esattamente quello che è successo ad Al Jazeera dopo aver prodotto un documentario sul sistema dei campi di lavoro forzato dove ha ampiamente messo in risalto le interviste agli ex detenuti del Falun Gong [un’antica disciplina spirituale perseguitata dal regime cinese, ndt].

Le scuse sulla mancanza di prove degli abusi sono a loro volta una prova del fatto che i Paesi occidentali hanno esercitato sul regime cinese una pressione politica e diplomatica irrilevante. Il regime continua quindi a commettere questi abusi all’oscuro, tra i quali la raccapricciante pratica dell’espianto di organi dai prigionieri vivi, alcuni dei quali si trovano nel braccio della morte, ma la maggior parte di loro sono prigionieri di coscienza del Falun Gong.

Quando mi trovavo nel carcere di Pechino, l’espianto di organi era una triste e risaputa realtà per tutti i detenuti nel braccio della morte. Ho parlato con un poliziotto che lo ha ammesso. Ha detto: «E allora? Moriranno comunque, allora lasciamo che gli ospedali facciano quello che vogliono con gli organi». Non potrò mai dimenticare quella volta in cui un detenuto mi raccontò di aver incontrato una persona della sua stessa città che risultava essere già giustiziata e cremata. Questa persona sosteneva ciò perché due anni prima la famiglia aveva ricevuto le ceneri.

Questo ha reso chiaro a tutti noi che molti prigionieri venivano tenuti in vita semplicemente perché le autorità aspettavano di trovare un ‘donatore’ compatibile. In seguito, la vera esecuzione – o piuttosto la somministrazione dei sedativi con il conseguente prelievo degli organi che avrebbe condotto alla morte – avrebbe avuto luogo. Un analogo procedimento è stato usato contro i prigionieri di coscienza, tra cui alcuni uiguri negli anni 90 e un gran numero di praticanti del Falun Gong dai primi anni del 2000 fino ad oggi. I Paesi occidentali non hanno mostrato interesse nel prendere attentamente in considerazione questi orrori moderni che stanno accadendo proprio sotto il loro naso.

Mi auguro che i funzionari e i politici dei Paesi occidentali democratici – compresi gli Stati Uniti e la Svezia dalla quale provengo – abbiano il coraggio di dire ai funzionari cinesi con i quali interagiscono che sanno bene cosa sta accadendo in Cina. Spero inoltre che inizino ad esigere che tutti i prigionieri di coscienza vengano liberati da queste strutture.

George Karimi è un uomo d’affari svedese di origine armena. Era stato condannato al carcere a vita in Cina dopo che uno dei suoi soci in affari è stato torturato e costretto ad accusarlo di contraffazione di denaro. Ha trascorso sette anni nelle prigioni cinesi prima di essere trasferito in Svezia nel 2010; adesso, dopo una riduzione della pena, dovrebbe essere rilasciato nel mese di novembre del 2015. Il signor Karimi ha recentemente ultimato un libro sulle sue esperienze.


Fonte: Epoch Times, http://epochtimes.it/news/il-brutale-sistema-carcerario-cinese-visto-dall-interno—125816

English version: The View From Inside China’s Brutal Prison System

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