Alberto Forchielli: “una questione di status e di libero commercio. La Cina contro Usa e Ue per cancellare tutti i dazi”
I quindici anni sono scaduti l’11 dicembre 2016. Pechino non ha aspettato un minuto in più per citare Stati Uniti e Unione Europea dinanzi al Wto. La Cina vuole togliersi quella scomodissima etichetta di NME {non market economy), vuole uscire dal limbo in cui l’hanno costretta i Paesi che hanno accettato il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Convinti che in 15 anni l’economia cinese sarebbe riuscita a scrollarsi di dosso tutti i residui di comunismo per trasformarsi nella terra promessa delle industrie americane ed europee. Popolata da centinaia di milioni di consumatori affamati di Occidente. Proprio l’ingresso della Cina nel Wto, oggi considerato da molti una scelta suicida, ha marchiato a fuoco la rivoluzione commerciale planetaria e ha dato il via alla globalizzazione.
Quella mossa ha scoperchiato il vaso di Pandora. E oggi l’amministrazione americana (Trump è il capofila della resistenza contro il Celeste Impero) e le burocrazie europee tentano di rimettere il tappo, appellandosi all’articolo 15 del protocollo di adesione. Prorogando sine die lo status di economia non di mercato alla Cina per salvare le loro industrie traballanti.
Non Pensate che si tratti di un giochino da diplomatici. In ballo ci sono milioni di posti di lavoro, miliardi di ricchezza e di fatturati, settori che sono vicini all’estinzione più dei panda. L’acciaio e la ceramica, ad esempio. O l’industria tessile che già in questi 15 anni con i dazi imperanti hanno fatto i conti con una litania di chiusure, di aziende svendute e di altoforni spenti dalla concorrenza cinese, alimentata da politiche di dumping sui prezzi. Basta un dato per capire cosa significhi cancellare tutti i dazi alla Cina, riconoscendole lo status di mercato e applicando la clausola della «nazione più favorita»: secondo lo studio di Aegis Europe, che riunisce 30 associazioni industriali, sparirebbero da 1,7 a 3,5 milioni di posti di lavoro in Europa, 400mila solo in Italia.
Tanto per restare nel tessile, nel 2000 c’erano milioni di dipendenti nelle industrie europee del settore, dal 2015 il 65% della forza lavoro è in Cina. Senza barriere e tariffe, l’estinzione è garantita. Inutile dire che i cinesi si aspettano il passaggio di status, per loro è un fatto automatico. Alcuni Paesi hanno assecondato Pechino: il Brasile, ad esempio, che ha riconosciuto lo status di economia di mercato. O l’Australia e il Sudafrica, che hanno firmato accordi bilaterali, partendo dallo stesso presupposto.
La Cina è ricca, ha capitali per realizzare grandi opere ovunque, per sorreggere imprese in bilico e per sanare colossi in bancarotta. Meglio non irritare i nuovi padroni del mondo, farci affari anche mentendo a se stessi. ALBERTO FORCHIELLI, economista di stanza ad Hong Kong e profondo conoscitore delle dinamiche cinesi, non ha dubbi.
«La Cina non è un’economia di mercato. Anche se sono partiti i ricorsi al Wto, si aprirà una stagione di contenziosi che potrebbe allontanare il pericolo dall’Europa. Pechino non ha rispettato i termini del protocollo del 2001: non ha aperto le gare pubbliche alle società straniere, non si sono liberati della società statali, non hanno tolto nessun sussidio alla loro industria. Si sono impegnati per instaurare la libera concorrenza, ma non sono affatto liberi».
Una diagnosi severa, suffragata da una lunga serie di esempi. «Se una società straniera - racconta Forchielli - partecipa a una gara pubblica in Cina, le vengono chiesti tanti documenti e progetti a supporto della partecipazione. La beffa più cocente è che non solo non vincerà l’appalto, ma il concorrente cinese gli soffierà la tecnologia e i progetti per realizzare quell’opera. In tante aziende, poi, la presenza dello Stato è soffocante, la presa governativa è ferrea. E non hanno nessuna intenzione di privatizzare.
Infine i sussidi: dai terreni gratis agli sconti sull’energia, è una litania di aiuti di Stato che non ha fine». Tutto facile, quindi? Niente affatto. Anche l’Unione Europea avrebbe bisogno dei soldi cinesi, ma non può spalancare le porte alle produzioni di Pechino, mandando in bancarotta tanti distretti industriali. Per questo, prima dei ricorsi e della scadenza di dicembre, Commissione e Parlamento avevano giocato di sponda e chiesto di varare un nuovo sistema di regole commerciali, per evitare politiche di dumping (come quella sull’acciaio) e e per accompagnare lo status di mercato libero. Ma dentro l’Europa, gli interessi sono diversi.
La Gran Bretagna, i Paesi scandinavi e l’Olanda vorrebbero la fine dei dazi, Germania, Francia e Italia sono contrari. «E’ evidente la dicotomia - ribadisce Forchielli - perché sono i Paesi che non hanno più una loro industria manifatturiera a voler aprire le porte alla Cina. In Gran Bretagna dominano le lobby della grande distribuzione e dei consumatori, meglio avere prodotti cinesi a basso costo. Ma ora Londra non vuole mettersi contro Trump». Già, è questo il paradosso. L’Europa è pronta ad accodarsi alle guerre protezionistiche del nuovo presidente Usa, che vuole rinegoziare tutte le regole del libero commercio, a cominciare dal Nafta e dalla Cina, e si è circondato di un gabinetto dominato dalla filosofia anti Cina. Trump ha vinto menando contro la globalizzazione. E ora, 15 anni dopo il vero colpo di starter, l’economia mondiale potrebbe tornare sui blocchi di partenza. Con la Ue dietro gli Stati Uniti.
Alberto Forchielli, 11 gennaio 2017
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