La cifra è approssimativa, ma basta per rendersi conto quante persone sono scomparse nelle prigioni cinesi in cui la prima regola è il lavoro forzato.
Si chiamano laogai, sono i lager cinesi [1]. Una tragedia dai numeri impressionanti, che ricorda quella dei gulag, ma che a differenza di essi sopravvive tranquillamente al crollo del regime comunista. Anzi. Proprio il boom economico crea, e finanzia, quella cortina fumogena dietro la quale questo crimine può continuare senza interruzioni. A 20 anni da piazza Tiananmen [2], nulla, sotto questo profilo, sembra cambiato.
Harry Wu [3], fondatore della Laogai Research Foundation [4], cattura la platea del Meeting nella giornata iniziale, gremendo oltre la capienza la sala A1, a parlare di ‘Tien an men: la Cina 20 anni dopo’. Basta una cifra, approssimativa: circa 50 milioni di cinesi sarebbero scomparsi nei laogai. Numeri in grado di superare gli orrori nazisti e dei campi di concentramento russi messi insieme. E se Alexandr Solgenitsin ha coniato il termine gulag, Harry Wu [3] dedica tutto il suo impegno di esule cinese a far conoscere la parola laogai, i campi di lavoro cinesi, dei quali si sa ancora molto poco. Da Rimini lancia il suo j’accuse al regime cinese. Raccontando semplicemente la sua auto-biografia di Controrivoluzionario [5] (il libro pubblicato da San Paolo in collaborazione con Mondo e missione) che testimonia di una tristissima linea di continuità fra il regime comunista e quello attuale, nella persecuzione dei cattolici. Harry Wu [3], nato nel 1937 a Shangai da famiglia benestante (il padre era dirigente di banca), cattolico, come racconta alla gente del Meeting, ci è diventato da ragazzo, a 12 anni. Dieci anni dopo, nel 1959, il suo arresto, nel pieno del regime di Mao «per il solo fatto di aver avanzato una domanda sui fatti di Ungheria ». Passerà 19 anni nei laogai, in 12 diversi campi di lavoro. Fuggito negli Usa al termine della pena, Wu, oggi cittadino americano, da lì si batte a tempo pieno per far conoscere i crimini del Partito comunista cinese, che in realtà proseguono.
Ma persino gli Usa che lo ospitano non hanno il coraggio di una presa di posizione chiara. «Nel luglio 2008 – racconta – sono stato chiamato alla Casa Bianca da Bush e ho spiegato la situazione dei diritti umani in Cina. Ma le ultime due amministrazioni Usa si sono solo riempite la bocca di questo tema senza fare molto in concreto per fermare le violazioni dei diritti umani in Cina», dice riferendosi anche a Clinton e lasciando il giudizio sospeso su Obama. Lungo l’elenco di violazioni che Harry Wu snocciola dal palco di Rimini: la repressione degli oppositori politici [6], la pianificazione forzata delle nascite attraverso la legge del figlio unico [7] (parla di «30 milioni di aborti in un solo anno»), il traffico di organi: «Il 95% dei 30mila trapianti annuali in Cina – denuncia – avviene con organi di detenuti uccisi [8]».
L’esule Harry Wu racconta la tragedia dei lager e lancia accuse al regime di Pechino che continua a perseguitare i cattolici [9].
Angelo Picariello, Avvenire, 25 agosto 2009
50 milioni i cinesi scomparsi nei laogai [10]